La Nuova Sardegna

Eutanasia: accabadora da rottamare. La genesi di un falso mito

di Manlio Brigaglia
Un martello come quelli che sarebbero stati usati dalle accabadoras
Un martello come quelli che sarebbero stati usati dalle accabadoras

Da Italo Bussa una storia della pratica diffusa un tempo nell’isola. Deformazione folcloristica per giustificare un’improbabile barbarie identitaria

18 novembre 2015
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Di tutti i miti che girano ancora per la Sardegna il più diffuso è quello dell’accabadora.

Il nome compare per la prima volta verso il 1835 in una voce («Bosa nuova») del diffusissimo «Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di Sua Maestà il Re di Sardegna», curato dall’abate piemontese Goffredo Casalis e scritto da Vittorio Angius, padre scolopio grafomane e polemista, poi giornalista e deputato, che aveva accettato l’incarico di redigere tutte le voci sulla Sardegna.

Tra le altre che Angius aveva raccattato a Bosa c’era anche la notizia dell’esistenza, nel passato della città e del suo territorio, di donne «speciali» – gli aggettivi usati da Angius nel suo reportage sono da subito tutt’altro che benevoli – chiamate a dare la morte, possibilmente senza o con poco dolore, a moribondi di difficile agonia e forse in situazione terminale (già qualche scrittore greco aveva favoleggiato di quest’isola dove i vecchi venivano regolarmente uccisi una volta arrivati a settant’anni).

L’operazione veniva compiuta nel silenzio assoluto, con qualche preghiera esorcistica, allontanati i parenti dalla stanza e tolti dal giro simboli e oggetti della religiosità tradizionale e quanti amuleti avrebbero potuto impedire all’anima di uscire dal corpo e volare in cielo.

La donna si chiamava accabadura, parola arrivata dal latino attraverso la Spagna col verbo acabar nel senso di «terminare, finire», ma anche di un «venire a capo» che richiamava la testa, sulla quale s’appuntava il colpo definitivo dell’oggetto-arma della donna, un màzzero, un breve legno duro e contundente: ma c’erano anche altre tecniche, fra le quali l’apposizione di su juale o jualeddu, una riproduzione miniaturizzata del giogo per i buoi, a ricordo del peccato mortale di averne bruciato uno.

Da quel 1835 il mito è stato poi declinato con numerose, anche fantasiose varianti. Hanno cominciato i viaggiatori che visitarono l’isola nell’Ottocento (una decina), la maggior parte dei quali si limitò a copiare quello che ne avevano già scritto il piemontese Lamarmora e l’inglese Smyth.

Così la notizia è passata al Novecento, per scoppiare poi come una bolla “storica” in questo secondo dopoguerra: all’accabadora sono dedicati già dentro il Duemila addirittura due romanzi di scrittori sardi di buon pedigree come Michela Murgia e Giovanni Murineddu.

Italo Bussa, conosciuto e serissimo studioso di tutto quello che è sardo, ha scritto per le cagliaritane Edizioni Della Torre un libro dal titolo inequivocabile, «L’accabadora immaginaria», e dal sottotitolo ancora più inequivocabile, «Una rottamazione del mito». Insomma: l’accabadora è esistita realmente o è pura favola?

Gli assertori di questo «assassinio umanitario» ne calcolano solo una quindicina nei quindici secoli sino alla metà del Settecento, quando scompare l’usanza. Bussa prima tratta il mito per quello che è (una favola che il pensiero scientifico contemporaneo deve «rottamare» radicalmente) e poi propone una spiegazione alla sua inquietante sopravvivenza.

In sostanza, da una antica e mai provata abitudine rituale – sostiene – sarebbe derivata una duplice forma di accabadura: una forma rarissima – l’omicidio dei vecchi, variamente motivato, ma centrato sul «fracassamento del cranio» – la cui esistenza non è appoggiata a un minimo di fonti verificabili, e un’altra, fatta soprattutto di pratiche magiche quante ne conoscevano le maialzas di paese, volta anch’essa ad accelerare l’agonia.

A studi, racconti e eventuali fonti Bussa si applica con tutto il rigore della scienza, arrivando al rifiuto radicale della prima forma – che chiama «l’accabadura violenta»– e alla prospettazione di un modello collocabile nell’ampio patrimonio di usanze della superstizione popolare – che chiama «l’accabadura magica», e che sarebbe l’unica forma in qualche misura ipotizzabile di questo rito finale.

Bussa esamina una per una (al microscopio, verrebbe fatto di dire: ma già basta il suo occhio severo e quella sorta di implacabile matita rosso-sangue con cui manda e castiga i non pochi autori da cui dissente) ogni riga scritta in proposito, sottoponendo testi e tesi ad uno scorticamento che nasce prima di tutto dal privilegiamento del pensiero scientifico e insieme dal suo desiderio «patriottico» di liberare la fama della Sardegna da questa folcloristica invenzione di una barbarie identitaria e dal suo sfruttamento ad uso prevalentemente turistico.

In sostanza, un’operazione mentale e scientifica di pulizia «etnica» alle cui ragioni sarà difficile opporre resistenza.

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