Aldo, il paladino dei poveri: la mia vita dedicata agli altri
di Luigi Soriga
Nel 2006 ha fondato la Casa della Fraterna Solidarietà: 250 pasti al giorno Un passato da direttore di banca. Ora dà cibo, assistenze e dentiere agli ultimi
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SASSARI. È un guerriero in frac, o forse un dandy con l’armatura. «Più che altro sono un elegante rompicoglioni», precisa lui. Aldo Meloni sfila tra cataste di abiti e montagne di panettoni come camminasse nella hall di un grand hotel. Un bel sogno col cravattino, precipitato in quel mondo da riciclare chiamato Casa della Fraterna Solidarietà. Giacca, gilet, pochette, 76 anni, capelli grigio saggezza, la spilla dorata del cavaliere del lavoro, gli stemmi della massoneria accanto al taschino e l’immancabile vezzo, la sua cifra stilistica: il papillon. «È il mio simbolo di libertà – dice – è una farfalla che spicca il volo. Mica come la cravatta: quella è una freccia che punta dritta sul pisello. Vuoi mettere?». Lo indossava sin da ragazzino, nel cassetto ne ha più di cinquanta. E a 17 anni, con il cravattino a pois d’oro, la faccia di bronzo, e un anello in mano, si è presentato dinnanzi ai futuri suoceri: «Mi voglio fidanzare con Pina». E Pina, per altri 60 anni, sarà l’unica donna della sua vita. La incontrò ad Arbatax, in un agosto pieno di sospiri. «Non avevo mai visto una ragazza così bella. Mi innamorai in un attimo. Eravamo predestinati come Adamo ed Eva, nati un giorno l’uno dall’altro». A 22 anni Aldo Meloni è già sposato, a 23 diventa papà. A casa porta lo stipendio, perché a 20 anni, con un diploma di ragioniere in tasca, riesce a farsi assumere dalla Banca Popolare di Sassari, filiale di Cagliari. Ha grande parlantina, sorriso di seta, l’aria da gentiluomo, e col pubblico ci sa fare. La carriera è svelta. A 28 anni viene promosso capoufficio, poi dirige la sede di Monserrato: «In banca venivano quasi sempre le donne. Le finanze le amministravano loro. E i soldi da depositare li tiravano fuori dal reggipetto». A 32 anni lo spediscono a Nuoro, con affrancata una promozione di vicedirettore. «E compaio col mio papillon, in mezzo a tanti vellutini e berritte. La gente mi guardava come un marziano, rideva». Poi, dopo 8 anni, il trasferimento a Oristano. «Lì ho conosciuto il Rotary, sono entrato nella massoneria. Ci si incontrava, si filosofeggiava per ore, volevamo tutti lavorare per il progresso dell’umanità, ma in fondo non si faceva un cacchio». Per accedere alle segretezze del Grande Oriente d’Italia, c’era l’iniziazione e il giuramento: «Siamo entrati in due nel tempio. Io e un giovane avvocato molto in voga. C’era odore d’incenso, la sala con i marmi, le persone incappucciate, la musica. Quando il gran maestro ci ha detto di inginocchiarci, l’avvocato, temerario nelle aule dei tribunali, per poco se l’è fatta sotto». Passano 3 anni, e la carriera chiama ancora una volta. «Mi propongono di fare il direttore a Sassari, e io accetto». A 50 anni gestisce le filiali. Poi ancora una promozione a vice direttore generale. «Favoritismi? Potere? Io per la massoneria ho preso più calci nel sedere che altro». In quel periodo la Banca Popolare entra in crisi, e viene incorporata dal Banco di Sardegna. «Nel 92 c'è la caccia al massone, il procuratore Cordova pubblica gli elenchi degli iscritti alle logge, c'è pure il mio nome, e la banca mi dà il ben servito. Avevo 53 anni, la professione e la famiglia erano la mia vita. Ero perso». Innanzitutto si presenta alla Nuova Sardegna: «Undici articoli, ero rompiballe già da allora, e il primo titolava così: Mi hanno cacciato perché massone». Poi Aldo Meloni si guarda intorno e la ruota riprende a girare. Prima costituisce la Findomus, che si occupa di consulenze per mutui. Poi la banca Euromobiliare decide di aprire una filiale a Sassari: «Mi chiedono di organizzare tutto, dai locali al personale. Per me è una rivincita. Apro la sede di viale Dante e la dirigo per 10 anni». Sarebbe anche tempo di andare in pensione, ma invece di inforcare un paio di ciabatte e seppellirsi nel divano sarcofago, lui lavora di fantasia. «Mi frullava in testa la promessa massone. Fai qualcosa di utile per la comunità. Alle riunioni ero una specie di stalker, e un amico panificatore, esasperato, alla fine mi ha detto: basta, hai rotto, se vuoi ti garantisco il pane ogni giorno. Nel 2006 la Casa della Fraterna Solidarietà è nata così. Il primo giorno ci aspettavamo una cinquantina di persone, e invece ne arrivano duecento per una busta di alimenti». Negli anni quel portone diventa un approdo certo per un'umanità alla deriva: «250 pasti al giorno, sette minuti per smaltire la fila. Non chiediamo nulla, giusto un saluto e un abbraccio. Se sei qui è perché hai bisogno. L'isee non fa per noi, lo lasciamo controllare ad altri. Ci piace farci imbrogliare dai poveri, come diceva Don Bosco. C'è una miseria che fa paura. Noi diamo cibo, vestiti, paghiamo bollette, bombole del gas, regaliamo il sorriso agli indigenti con le dentiere, ma diamo anche sapone e carta igienica. I poveri hanno bisogno di tutto. L'ho capito così: vedevo sempre una signora che svuotava le cassette postali e portava via i volantini pubblicitari. Le ho chiesto perché? Non aveva i soldi per comprare la carta igienica».
Un giorno però quel capitolo della vita chiamata terza età, prende una piega inaspettata e triste. «Ho trovato Pina semi paralizzata, un intero lato del corpo immobile. Non riusciva a parlare e mi guardava». All'ospedale di Sassari, contro quell'ictus devastante, possono fare poco. Non c'erano neanche gli strumenti per arginarlo. E le conseguenze restano. Pina non è più autosufficiente, non parla, e il dolore è un abbraccio che non molla mai la presa. «Non sono mai riuscito ad accettare questo calvario. Ancora una volta ho reagito a modo mio, rompendo le scatole. Ho martellato i vertici dell'Asl, ho contattato associazioni. Alla fine la sfortuna di Pina non è stata inutile: a Sassari ora c'è una stroke unit, e se questo reparto fosse nato 12 anni fa, io avrei una vecchiaia diversa». Si sveglia tre volte a notte, dorme poco. Assiste la moglie in tutto, fa il care giver. Spesso la guarda impotente mentre soffre. Non vuole badanti tra i piedi, almeno finché ha energie. Un amore lungo 60 anni, dice, merita un po' di cocciutaggine. Le racconta le sue giornate, lei sorride. Poi la mattina le dà un bacio, infila il papillon, e fa sì che un pezzetto di mondo sia un altro giorno più sazio.
Un giorno però quel capitolo della vita chiamata terza età, prende una piega inaspettata e triste. «Ho trovato Pina semi paralizzata, un intero lato del corpo immobile. Non riusciva a parlare e mi guardava». All'ospedale di Sassari, contro quell'ictus devastante, possono fare poco. Non c'erano neanche gli strumenti per arginarlo. E le conseguenze restano. Pina non è più autosufficiente, non parla, e il dolore è un abbraccio che non molla mai la presa. «Non sono mai riuscito ad accettare questo calvario. Ancora una volta ho reagito a modo mio, rompendo le scatole. Ho martellato i vertici dell'Asl, ho contattato associazioni. Alla fine la sfortuna di Pina non è stata inutile: a Sassari ora c'è una stroke unit, e se questo reparto fosse nato 12 anni fa, io avrei una vecchiaia diversa». Si sveglia tre volte a notte, dorme poco. Assiste la moglie in tutto, fa il care giver. Spesso la guarda impotente mentre soffre. Non vuole badanti tra i piedi, almeno finché ha energie. Un amore lungo 60 anni, dice, merita un po' di cocciutaggine. Le racconta le sue giornate, lei sorride. Poi la mattina le dà un bacio, infila il papillon, e fa sì che un pezzetto di mondo sia un altro giorno più sazio.