L'assessore Paci: «Più autonomia per l’isola, basta con i burocrati»
di Luca Rojch
Il vicepresidente della Regione: «La Sardegna deve chiedere e avere più poteri Le riforme non hanno dato risposte immediate, ma arriveranno nel tempo»
28 marzo 2018
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SASSARI. Autonomista, con venature quasi indipendentiste. All’assalto dei burocrati di Stato e d’Europa, veri nemici delle rivendicazioni della Sardegna. Raffaele Paci, l’assessore più apollineo della giunta Pigliaru rivela il suo spirito guerriero. Rivendica i risultati raggiunti dalla giunta, di cui è vicepresidente. Spiega cosa si deve fare nei 10 mesi che mancano alla fine della legislatura. E non risparmia affondi al Pd: «Basta a questa tripartizione tra correnti».
Assessore, partiamo dalla fine. Dall’impugnazione della Finanziaria nazionale. Perché lo avete fatto?
«Avevamo impugnato anche le Finanziarie del 2016 e del 2017. Il motivo è sempre lo stesso: la questione degli accantonamenti. Per il 2018 dovevamo firmare un nuovo accordo. Abbiamo iniziato a discutere da febbraio dell’anno scorso. Nessuna risposta. La richiesta di accantonamenti nel frattempo è passata da 684 a oltre 800 milioni di euro. La Sardegna vive ancora il peso della crisi, e non riesce nello stesso tempo a contribuire in modo così massiccio agli accantonamenti, a pagare i farmaci innovativi e i livelli essenziali di assistenza sanitaria, oltre a tutta la spesa sanitaria. Sappiamo di dover pagare gli accantonamenti per contribuire al risanamento del debito pubblico nazionale ma contestiamo con forza la cifra, troppo alta rispetto al nostro Pil e superiore a quella chiesta ad altre regioni spesso più ricche della nostra. La Corte Costituzionale ha detto con chiarezza che la cifra va stabilita con un accordo politico e che gli accantonamenti non possono essere senza fine, perché altrimenti è come se venisse unilateralmente modificato lo Statuto. Come se la nostra compartecipazione all’Irpef non fosse più di 7 decimi, ma di 5 decimi. Da qui siamo partiti alla ricerca di un accordo. Siamo andati al tavolo con il premier Gentiloni ma, nonostante i richiami e i dossier che abbiamo portato a sostegno delle nostre ragioni, non abbiamo avuto risposte. Lo Stato non ha rispettato il rapporto di leale collaborazione».
C’è il ritiro dei ricorsi.
«Siamo stati accusati di averlo fatto. Ma voglio spiegare una volta per tutte che non sarebbe cambiato nulla, non avremmo incassato un solo euro perché i soldi non arrivano in automatico con le sentenze. La Corte ci dice solo che la soluzione deve essere politica e condivisa. Quando abbiamo fatto l’accordo col governo sul superamento del Patto di stabilità e la chiusura della Vertenza Entrate con il riconoscimento di 900 milioni per la Sardegna, abbiamo accettato di ritirare i ricorsi, facendo la nostra parte come succede in tutte le trattative».
A proposito di accordi, quello della sanità fatto da Soru e Prodi sui costi ci è convenuto?
«In quel momento sì. Era stato fatto prima della crisi, nel 2006. Oggi molte cose sono cambiate. La fine delle politiche sociali dello Stato. L’arrivo di nuovi farmaci a carico nostro. Se avessimo i 684 milioni degli accantonamenti sicuramente non ci sarebbero le difficoltà che il bilancio della Regione vive oggi».
Condivide la riforma della sanità?
«Certo. È giusto cancellare le piccole otto repubbliche e creare una asl unica. Sono convinto che nel tempo porterà un risparmio delle spese, ma soprattutto un miglioramento della qualità dell’offerta sanitaria, che è il vero obiettivo di questa riforma. Dare a tutti i sardi lo stesso diritto alla salute. Ovunque vivano».
La riforma sanitaria è il simbolo della difficoltà delle persone a capire l’importanza delle Riforme fatte dalla Giunta.
«Credo che la crisi abbia cambiato in modo strutturale i sardi e l’isola. La chiusura a catena delle realtà industriali in molte parti dell’isola. Il turismo che ha conosciuto 5 anni di crisi profonda. Davanti a una crisi generalizzata, le riforme non hanno dato risposte immediate. Ma le daranno nel tempo. Turismo, agroindustria, artigianato vanno nella direzione giusta. È chiaro però che nell’immediato il rischio è di alimentare il malcontento e non dare risposte. E chi è al governo in quel momento ne paga le conseguenze, forse anche per non aver saputo spiegare il senso profondo delle riforme e i benefici che arriveranno. Poi c’è la crisi che il centrosinistra vive in tutta Europa. Ma gran parte del nostro programma elettorale, che ho contribuito a scrivere quattro anni fa, è stato realizzato. Non abbiamo fatto promesse, abbiamo scelto la politica dei risultati».
E il ruolo della maggioranza?
«Da subito la maggioranza variegata è stata investita da una serie di cambiamenti. Faccio l’esempio di Sel, che è scomparsa a livello nazionale ed è andata all’opposizione, ma in Regione è rimasta col Pd. A questo va aggiunta la presenza di un partito indipendentista, che a mio avviso è molto apprezzabile, ma che ha temi e dinamiche differenti rispetto a quelle nazionali. C’è poi il Pd che non ha mai avuto pace al suo interno. Dalla segreteria di Soru fino a oggi. Questa situazione così complessa non ha fatto bene alla giunta, spesso esposta a critiche e attacchi».
Come considera l’agenzia sarda delle entrate?
«È una conquista di questa legislatura. Abbiamo nominato il direttore generale, ora è operativa e avrà il ruolo di controllore dei conti e delle nostre entrate, per garantire che lo Stato versi nelle nostre casse il dovuto».
Si è spesso parlato di una Giunta debole perché tecnica e non politica.
«Non ho mai capito questo. Cosa vuol dire? Io sono consapevole del mio ruolo politico. So che devo portare risposte alle esigenze della Sardegna, della popolazione, della polis. Le nostre decisioni sono sempre state politiche».
Teme che con un governo di centrodestra possa cambiare il Patto per la Sardegna?
«No. In questi anni abbiamo avuto rapporti ottimi con i ministri, le vere difficoltà sono state con gli apparati ministeriali. Renzi ha firmato con noi il Patto per la Sardegna, ma questo non ci ha impedito di impugnare le finanziarie che ritenevamo lesive dei nostri diritti. Come ho detto, le vere difficoltà sono con gli apparati che non sempre hanno avuto comportamenti leali».
La stessa situazione si viva con l’Europa sui trasporti.
«Certo. È l’emblema della nostra difficoltà. Nessuno conosce il nome del ministro europeo dei Trasporti. Il motivo è semplice, lui non sceglie. Chi governa sono gli apparati. E non capiscono che la Sardegna è un’isola. L’unica vera isola dell’Italia lontana dalla terraferma. Gli aerei devono essere i nostri treni. Sulla continuità ci siamo trovati in situazioni paradossali. Con i bandi bloccati dai burocrati Ue. Ma se si va avanti con i veti il vero rischio è di non avere compagnie disposte a partecipare ai bandi per la paura di dover restituire i soldi ricevuti. Come il caso della legge 10. Come il caso di Ryanair che deve restituire 13 milioni di euro».
Il tema dell’insularità.
«È questo il tema centrale. Ho anche firmato per il referendum, per me serviva per capire che c’è un’urgenza sentita da un’intera isola. La stessa Europa deve capire che anche la Sardegna è una regione ultraperiferica, come Azzorre o Fær Øer. Perché alla distanza dal resto della penisola si deve aggiungere la scarsa densità abitativa che la rende scarsamente appetibile per i grandi investimenti delle infrastrutture. Il metano sarebbe realtà se fossimo 5 milioni. Ecco a cosa serve l’insularità. Senza un sostegno del governo nazionale non possiamo andare da soli a Bruxelles a rivendicare i nostri diritti e a negoziare. In questi ultimi 10 anni i diversi governi di diversi colori politici hanno sempre disatteso le nostre richieste. Ecco perché serve maggiore autonomia. Che si può declinare in modo diverso a seconda della propria sensibilità politica. Dall’autonomismo, al federalismo, all’indipendentismo. In Corsica e in Scozia governano gli indipendentisti, ma non chiedono di separarsi dallo Stato».
Ma insomma è diventato indipendentista?
«Lasciamo stare le definizioni. Dico che deve arrivare una forte richiesta di maggiori poteri da parte della Sardegna e di chi la guida. Se devo dire cosa ho imparato in questi 4 anni è proprio questo. La necessità di un maggiore potere e di una maggiore autonomia della Sardegna».
Mancano 10 mesi al voto, cosa deve fare la giunta?
«Dobbiamo ultimare il risanamento del bilancio, per lasciare un futuro solido. Al nostro arrivo c’erano 5 miliardi di residui passivi e solo 4 attivi. 2,3 miliardi di perenzioni (debiti della Regione non pagati e scaduti ndr). Abbiamo chiuso il Patto per la Sardegna, chiuso il piano di rinascita e incassato 90 milioni che lo Stato ci doveva dal 1999. E dobbiamo affrontare con decisione il tema del lavoro, che rimane la nostra emergenza, come abbiamo iniziato a fare con LavoRas».
Cosa pensa della legge urbanistica?
«Su questo tema c’è una contrapposizione ideologica. Noi vogliamo salvaguardare l’ambiente che è il vero valore aggiunto della Sardegna. Nessuna nuova costruzione nei 300 metri. Semplicemente se ho un hotel che non ha usufruito di leggi precedenti e che non ha servizi e lavora solo 2 mesi all’anno, è giusto che si possano consentire intervenire nel rispetto delle leggi e dell’ambiente per creare spa o altri servizi che consentano di allungare la stagione. Sui grandi investimenti non si vuole derogare al Ppr, ma vogliamo progettare con il Mibact su opere mirate. Pigliaru ed Erriu si sono detti disponibili a parlare di questo. Ma senza barriere ideologiche».
Si è parlato di rimpasto dopo il flop elettorale.
«A meno di un anno dal voto credo sia inutile e controproducente. Ma deciderà Pigliaru. Il mandato di tutti gli assessori come sempre è a disposizione del presidente. Ma credo che ora sia il momento di lavorare insieme per portare a casa i risultati di questa legislatura».
Cosa ne pensa di una ricandidatura di Pigliaru?
«Sono scelte personali. Penso che sarà il presidente Pigliaru a dire come la pensa e a ragionare insieme alla coalizione. Vale per lui e per tutti i nomi fatti in questo periodo. Non credo sia una scelta individuale, ma il risultato di un ragionamento. E ricordo a tutti che il centrosinistra da 20 anni si avvale del sistema delle primarie».
Il Pd resta il grande malato, cosa deve fare per riprendersi?
«Il Pd sardo deve superare la tripartizione correntizia che si porta dietro da troppo tempo. Lo sta distruggendo. Senza una reale unità il Pd è destinato a morire. Chi è fuori dalle correnti sembra non abbia diritto a fare politica. È necessario un forte rinnovamento: serve un confronto sui temi e sugli obiettivi. Serve una coalizione ampia, che comprenda le forze del centrosinistra, degli autonomisti e del sardismo democratico».
Assessore, partiamo dalla fine. Dall’impugnazione della Finanziaria nazionale. Perché lo avete fatto?
«Avevamo impugnato anche le Finanziarie del 2016 e del 2017. Il motivo è sempre lo stesso: la questione degli accantonamenti. Per il 2018 dovevamo firmare un nuovo accordo. Abbiamo iniziato a discutere da febbraio dell’anno scorso. Nessuna risposta. La richiesta di accantonamenti nel frattempo è passata da 684 a oltre 800 milioni di euro. La Sardegna vive ancora il peso della crisi, e non riesce nello stesso tempo a contribuire in modo così massiccio agli accantonamenti, a pagare i farmaci innovativi e i livelli essenziali di assistenza sanitaria, oltre a tutta la spesa sanitaria. Sappiamo di dover pagare gli accantonamenti per contribuire al risanamento del debito pubblico nazionale ma contestiamo con forza la cifra, troppo alta rispetto al nostro Pil e superiore a quella chiesta ad altre regioni spesso più ricche della nostra. La Corte Costituzionale ha detto con chiarezza che la cifra va stabilita con un accordo politico e che gli accantonamenti non possono essere senza fine, perché altrimenti è come se venisse unilateralmente modificato lo Statuto. Come se la nostra compartecipazione all’Irpef non fosse più di 7 decimi, ma di 5 decimi. Da qui siamo partiti alla ricerca di un accordo. Siamo andati al tavolo con il premier Gentiloni ma, nonostante i richiami e i dossier che abbiamo portato a sostegno delle nostre ragioni, non abbiamo avuto risposte. Lo Stato non ha rispettato il rapporto di leale collaborazione».
C’è il ritiro dei ricorsi.
«Siamo stati accusati di averlo fatto. Ma voglio spiegare una volta per tutte che non sarebbe cambiato nulla, non avremmo incassato un solo euro perché i soldi non arrivano in automatico con le sentenze. La Corte ci dice solo che la soluzione deve essere politica e condivisa. Quando abbiamo fatto l’accordo col governo sul superamento del Patto di stabilità e la chiusura della Vertenza Entrate con il riconoscimento di 900 milioni per la Sardegna, abbiamo accettato di ritirare i ricorsi, facendo la nostra parte come succede in tutte le trattative».
A proposito di accordi, quello della sanità fatto da Soru e Prodi sui costi ci è convenuto?
«In quel momento sì. Era stato fatto prima della crisi, nel 2006. Oggi molte cose sono cambiate. La fine delle politiche sociali dello Stato. L’arrivo di nuovi farmaci a carico nostro. Se avessimo i 684 milioni degli accantonamenti sicuramente non ci sarebbero le difficoltà che il bilancio della Regione vive oggi».
Condivide la riforma della sanità?
«Certo. È giusto cancellare le piccole otto repubbliche e creare una asl unica. Sono convinto che nel tempo porterà un risparmio delle spese, ma soprattutto un miglioramento della qualità dell’offerta sanitaria, che è il vero obiettivo di questa riforma. Dare a tutti i sardi lo stesso diritto alla salute. Ovunque vivano».
La riforma sanitaria è il simbolo della difficoltà delle persone a capire l’importanza delle Riforme fatte dalla Giunta.
«Credo che la crisi abbia cambiato in modo strutturale i sardi e l’isola. La chiusura a catena delle realtà industriali in molte parti dell’isola. Il turismo che ha conosciuto 5 anni di crisi profonda. Davanti a una crisi generalizzata, le riforme non hanno dato risposte immediate. Ma le daranno nel tempo. Turismo, agroindustria, artigianato vanno nella direzione giusta. È chiaro però che nell’immediato il rischio è di alimentare il malcontento e non dare risposte. E chi è al governo in quel momento ne paga le conseguenze, forse anche per non aver saputo spiegare il senso profondo delle riforme e i benefici che arriveranno. Poi c’è la crisi che il centrosinistra vive in tutta Europa. Ma gran parte del nostro programma elettorale, che ho contribuito a scrivere quattro anni fa, è stato realizzato. Non abbiamo fatto promesse, abbiamo scelto la politica dei risultati».
E il ruolo della maggioranza?
«Da subito la maggioranza variegata è stata investita da una serie di cambiamenti. Faccio l’esempio di Sel, che è scomparsa a livello nazionale ed è andata all’opposizione, ma in Regione è rimasta col Pd. A questo va aggiunta la presenza di un partito indipendentista, che a mio avviso è molto apprezzabile, ma che ha temi e dinamiche differenti rispetto a quelle nazionali. C’è poi il Pd che non ha mai avuto pace al suo interno. Dalla segreteria di Soru fino a oggi. Questa situazione così complessa non ha fatto bene alla giunta, spesso esposta a critiche e attacchi».
Come considera l’agenzia sarda delle entrate?
«È una conquista di questa legislatura. Abbiamo nominato il direttore generale, ora è operativa e avrà il ruolo di controllore dei conti e delle nostre entrate, per garantire che lo Stato versi nelle nostre casse il dovuto».
Si è spesso parlato di una Giunta debole perché tecnica e non politica.
«Non ho mai capito questo. Cosa vuol dire? Io sono consapevole del mio ruolo politico. So che devo portare risposte alle esigenze della Sardegna, della popolazione, della polis. Le nostre decisioni sono sempre state politiche».
Teme che con un governo di centrodestra possa cambiare il Patto per la Sardegna?
«No. In questi anni abbiamo avuto rapporti ottimi con i ministri, le vere difficoltà sono state con gli apparati ministeriali. Renzi ha firmato con noi il Patto per la Sardegna, ma questo non ci ha impedito di impugnare le finanziarie che ritenevamo lesive dei nostri diritti. Come ho detto, le vere difficoltà sono con gli apparati che non sempre hanno avuto comportamenti leali».
La stessa situazione si viva con l’Europa sui trasporti.
«Certo. È l’emblema della nostra difficoltà. Nessuno conosce il nome del ministro europeo dei Trasporti. Il motivo è semplice, lui non sceglie. Chi governa sono gli apparati. E non capiscono che la Sardegna è un’isola. L’unica vera isola dell’Italia lontana dalla terraferma. Gli aerei devono essere i nostri treni. Sulla continuità ci siamo trovati in situazioni paradossali. Con i bandi bloccati dai burocrati Ue. Ma se si va avanti con i veti il vero rischio è di non avere compagnie disposte a partecipare ai bandi per la paura di dover restituire i soldi ricevuti. Come il caso della legge 10. Come il caso di Ryanair che deve restituire 13 milioni di euro».
Il tema dell’insularità.
«È questo il tema centrale. Ho anche firmato per il referendum, per me serviva per capire che c’è un’urgenza sentita da un’intera isola. La stessa Europa deve capire che anche la Sardegna è una regione ultraperiferica, come Azzorre o Fær Øer. Perché alla distanza dal resto della penisola si deve aggiungere la scarsa densità abitativa che la rende scarsamente appetibile per i grandi investimenti delle infrastrutture. Il metano sarebbe realtà se fossimo 5 milioni. Ecco a cosa serve l’insularità. Senza un sostegno del governo nazionale non possiamo andare da soli a Bruxelles a rivendicare i nostri diritti e a negoziare. In questi ultimi 10 anni i diversi governi di diversi colori politici hanno sempre disatteso le nostre richieste. Ecco perché serve maggiore autonomia. Che si può declinare in modo diverso a seconda della propria sensibilità politica. Dall’autonomismo, al federalismo, all’indipendentismo. In Corsica e in Scozia governano gli indipendentisti, ma non chiedono di separarsi dallo Stato».
Ma insomma è diventato indipendentista?
«Lasciamo stare le definizioni. Dico che deve arrivare una forte richiesta di maggiori poteri da parte della Sardegna e di chi la guida. Se devo dire cosa ho imparato in questi 4 anni è proprio questo. La necessità di un maggiore potere e di una maggiore autonomia della Sardegna».
Mancano 10 mesi al voto, cosa deve fare la giunta?
«Dobbiamo ultimare il risanamento del bilancio, per lasciare un futuro solido. Al nostro arrivo c’erano 5 miliardi di residui passivi e solo 4 attivi. 2,3 miliardi di perenzioni (debiti della Regione non pagati e scaduti ndr). Abbiamo chiuso il Patto per la Sardegna, chiuso il piano di rinascita e incassato 90 milioni che lo Stato ci doveva dal 1999. E dobbiamo affrontare con decisione il tema del lavoro, che rimane la nostra emergenza, come abbiamo iniziato a fare con LavoRas».
Cosa pensa della legge urbanistica?
«Su questo tema c’è una contrapposizione ideologica. Noi vogliamo salvaguardare l’ambiente che è il vero valore aggiunto della Sardegna. Nessuna nuova costruzione nei 300 metri. Semplicemente se ho un hotel che non ha usufruito di leggi precedenti e che non ha servizi e lavora solo 2 mesi all’anno, è giusto che si possano consentire intervenire nel rispetto delle leggi e dell’ambiente per creare spa o altri servizi che consentano di allungare la stagione. Sui grandi investimenti non si vuole derogare al Ppr, ma vogliamo progettare con il Mibact su opere mirate. Pigliaru ed Erriu si sono detti disponibili a parlare di questo. Ma senza barriere ideologiche».
Si è parlato di rimpasto dopo il flop elettorale.
«A meno di un anno dal voto credo sia inutile e controproducente. Ma deciderà Pigliaru. Il mandato di tutti gli assessori come sempre è a disposizione del presidente. Ma credo che ora sia il momento di lavorare insieme per portare a casa i risultati di questa legislatura».
Cosa ne pensa di una ricandidatura di Pigliaru?
«Sono scelte personali. Penso che sarà il presidente Pigliaru a dire come la pensa e a ragionare insieme alla coalizione. Vale per lui e per tutti i nomi fatti in questo periodo. Non credo sia una scelta individuale, ma il risultato di un ragionamento. E ricordo a tutti che il centrosinistra da 20 anni si avvale del sistema delle primarie».
Il Pd resta il grande malato, cosa deve fare per riprendersi?
«Il Pd sardo deve superare la tripartizione correntizia che si porta dietro da troppo tempo. Lo sta distruggendo. Senza una reale unità il Pd è destinato a morire. Chi è fuori dalle correnti sembra non abbia diritto a fare politica. È necessario un forte rinnovamento: serve un confronto sui temi e sugli obiettivi. Serve una coalizione ampia, che comprenda le forze del centrosinistra, degli autonomisti e del sardismo democratico».