La Nuova Sardegna

Moni Ovadia: «La memoria, uno specchio per il futuro»

di Roberta Sanna
Moni Ovadia: «La memoria, uno specchio per il futuro»

Il regista racconta lo spettacolo “Nota stonata” in scena nei teatri dell’isola Nel dialogo tra i due protagonisti la rievocazione dello sterminio degli ebrei

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«A monte di questo spettacolo c’è un testo fantastico, costruito con intelligenza e tensione formidabili da Didier Caron. Con due bravissimi attori che tengono magnificamente la parte, il mio lavoro di regista è venuto naturale: è bastato seguire il testo e mettere gli attori nel contesto di una vicenda con un grandissimo valore simbolico e un finale esplosivo». Moni Ovadia sottolinea con entusiasmo le qualità drammaturgiche di "Nota stonata" lo spettacolo con Giuseppe Pambieri e Carlo Greco che il Circuito Cedac, dopo Tempio Pausania, ha portato ieri sera alle ore 21 al Padiglione Tamuli – ex Caserme Mura di Macomer e oggi alle 20.45 al Teatro Centrale di Carbonia.

«È un kammerspiel – racconta Ovadia – con i due attori in un unico ambiente, il camerino di un grande direttore d’orchestra. Solo attraverso una proiezione si vede appena l’ambiente esterno. Tutto è basato sulla forza della narrazione, la qualità del linguaggio e una drammaturgia di grandissima tensione espressiva ed emotiva. In questi casi il lavoro registico è al servizio del testo. Non è la mia storia abituale, io ho sempre lavorato sulla scrittura scenica, per quadri, è un altro tipo di teatro quello che faccio. Ma quando ti offrono un testo così, chiunque avrebbe detto sì. Caron è un autore da seguire, perché maneggia la materia drammaturgica, le relazioni, le emozioni e conduce lo spettatore all’esito in maniera eccezionale».

Esito che ovviamente non va svelato per non togliere la suspense di cui è intriso il dialogo tra i due protagonisti, che rimanda dolorosamente ad un tragico passato. Basti dire che lo scorso gennaio è andato in onda su Rai 5 in occasione della Giornata della Memoria. In risposta a chi fa spesso polemica sulla reale valenza di queste manifestazioni, Moni Ovadia non ha dubbi, sono più che mai necessarie, tanto che come Direttore generale del Teatro Claudio Abbado di Ferrara ha creato il Festival delle memorie.

«È una mia proposta di cui vado orgoglioso, spiega Ovadia, forse il primo festival del genere al mondo o almeno in Europa. Mira ad allargare il progetto memorie, nato in occasione del genocidio degli ebrei, a tutti i genocidi e stermini di massa. Quest’anno ricorderemo gli Armeni, i Tutsi, i Curdi, i Rom, i Sinti e anche gli Ebrei, con il bellissimo spettacolo di Valter Malosti “Se questo è un uomo”, in questi giorni in Sardegna. Il mio intento è che si capisca che l’umanità è costellata di orrori e che solo quando avremo una memoria condivisa potremo costruire una cultura e un pensiero di pace. La scrittrice e grande traduttrice dall’ebreo Elena Loewenthal ha detto bene: il Giorno della Memoria non si fa per le vittime ma per i Paesi che hanno ospitato i carnefici».

Moni Ovadia ricorda il caso dell’Italia fascista. «Non ha solo partecipato in solido con i nazisti allo sterminio degli ebrei, ma ha commesso un genocidio in Cirenaica, una strage di massa in Etiopia, assassini collettivi nella ex Jugoslavia con addirittura veri e propri lager come il campo di Arbe in cui il generale Roatta comandava di far morire di fame e malattie gli internati. Senza dimenticare di dire che le sofferenze degli italiani, le foibe e la deportazione degli Istriani sono state causate dal nazifascismo, non sono venute dall’aria. La memoria serve anche a questo, a uscire dallo stereotipo “italiani brava gente”. La brava gente non ha nazionalità. Pensi che gli albanesi, africani, slavi e greci hanno chiesto la consegna per il giudizio di settecentoventi criminali di guerra italiani. Non uno è stato consegnato».

Insomma anche l’Italia avrebbe potuto avere una sorta di processo di Norimberga, sottolinea Ovadia. «Le vittime, ad esempio ebrei, sanno benissimo ciò che hanno subito. I giorni della memoria servono a far capire quanto poco basti per diventare carnefici. Guardando ai nostri giorni, ha visto come siamo stati tutti zitti mentre la polizia polacca con la temperatura sotto zero scaricava getti di acqua gelida su uomini, donne, vecchi, bambini, sa cosa significa? Che forse era più pietoso sparare. E qui da noi “quattro parole qui quattro parole là”, quando dovrebbe esserci una marcia di persone che mettono i propri corpi a difesa di quei migranti. Se fossimo una vera civiltà. Per non dire della strage nei nostri mari, dal Mediterraneo alla Manica».

In un mondo complicato la memoria serve eccome, conclude Ovadia. «Vorrei portare alla coscienza di tutti un’idea che a me ha fatto capire Liliana Segre. La peggior cosa che possa capitare ad un essere umano non è quella di essere vittima, ma quella di essere carnefice».



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