Olbia, dall’asino Mogadiscio alla secca Simpatia: nei vecchi toponimi l’anima della città
Simplicio Usai e le sue ricerche tra terra e mare: «Sempre stato curioso, mi piace ascoltare le storie degli anziani»
Olbia. Si chiamerà anche Simpatia, ma di piacevole quella secca in mezzo al golfo interno non ha proprio nulla. Anzi, è maledettamente pericolosa. Nel 1908 ci finì sopra un bastimento: la nave affondò e il capitano morì. E alla secca, che gli olbiesi di una volta chiamavano Torraccia, restò così il nome dello sfortunato bastimento: Simpatia. Invece in quello specchio di mare dove i fenicotteri immergono oggi le loro zampe c’è davvero da perderci la testa. Gli scogli e gli isolotti sono decine e non sempre facili da individuare, ma ce n’è uno in particolare che si chiama Su ‘Òe Marinu. Proprio roba di altri tempi, visto che il toponimo deriva dal fatto che in questa zona stazionava una numerosa colonia di foche monache, chiamate appunto buoi marini. Se gli chiedete qualcosa, Simplicio Usai potrà raccontarvi questo e molto altro. Appassionato di tutto ciò che è storia, natura e memoria, con un passato nel servizio escavazione porti e da una ventina di anni impiegato dell’ufficio toponomastica del Comune, Simplicio Usai, classe 1962, è uno studioso amatoriale da competizione. E i toponimi sono la sua grande passione: esplora il territorio, rispolvera vecchi libri e documenti, chiede informazioni agli archeologi, parla con le persone del posto, pesca dai ricordi degli anziani. È la sostenibilità della memoria. Negli anni ha messo in piedi uno studio quasi monumentale che ha poi trasformato in due libri: Olòdromu, incentrato sui toponimi costieri di Olbia, e Masciunarèga, che racconta invece alcune zone più interne. In futuro, forse, arriveranno altri volumi.
La curiosità. Olbiese doc – in fondo porta pure il nome del patrono – Simplicio Usai, appassionato anche di archeologia subacquea, non ha cominciato a occuparsi di toponimi solo quando è arrivato all’ufficio toponomastica. «Anche da bambino ero abbastanza curioso – racconta Usai –. Mi piaceva ascoltare le storie degli anziani. Ricordo che in tanti parlavano addirittura di un maremoto che avrebbe colpito Olbia. Non c’è la prova, però. Mio padre, invece, mi portava a caccia: nominava alcune zone e pian piano ho cominciato a chiedermi il perché di alcuni toponimi. La passione è insomma nata così». Simplicio Usai, scarpe da trekking ai piedi e macchina fotografica a portata di mano, è così diventato uno dei più grandi conoscitori del territorio olbiese. Con il suo infaticabile lavoro contribuisce a tenere viva la memoria. Ha rispolverato vecchie storie e ne ha scoperte anche di nuove. Poi fa un esempio: prende la mappa della città e punta il dito sull’isolotto oggi in parte inglobato dalla Marina di Olbia. Lo chiamavano Caléschida. «Significa contenta, gongolante, felice – spiega Usai –. E Caléschida era probabilmente una donna appunto felice di aver ricevuto, come dono di nozze, quell’isolotto». Poi il dito di Simplicio Usai si ferma su un altro isolotto allungato alla foce del Padrongianus: Sueràda. «Vuol dire sudata – dice Usai –. Significa che il vecchio proprietario, per ottenerlo, fece una certa fatica. Fu una dura trattativa».
Lo studio. Libri di Dionigi Panedda alla mano, Simplicio Usai porta avanti i suoi studi ormai da parecchi anni. Sulle carte, ma soprattutto tra rocce, terra, sabbia e macchia mediterranea. Da Capo Ceraso a San Pantaleo fino alle zone più interne del territorio olbiese. «Svolgo queste ricerche per puro piacere – racconta Simplicio Usai –. Inizialmente dovevano restare in famiglia, l’idea era infatti quelle di lasciarle ai miei figli. Poi, pian piano, sono diventate pubbliche con la nascita dei libri». Una passione, la sua, che si sposa perfettamente con quello che da venti anni è il suo mestiere in Comune. Così Simplicio Usai ha anche partecipato alla realizzazione di due importanti progetti comunali per il recupero della toponomastica storica di Olbia, in particolare lungo la fascia costiera, e per la mappatura di oltre trenta percorsi naturalistici negli angoli più belli attorno alla città.
Storia nei nomi. Leggere i libri di Simplicio Usai significa andare alla scoperta dell’anima della città. Dietro ogni toponimo c’è spesso una storia che merita di essere raccontata. La spiaggia del Pellicano, per esempio, un tempo veniva chiamata dai pescatori Sa cala de sos piramides. Tutto deriva dalla presenza di due dromi di forma piramidale, tra l’altro ancora in piedi. Erano punti di riferimento per la navigazione costiera diurna. Invece chi frequenta la zona di Cala Saccaia, di fronte al faro, avrà sicuramente notato un vecchio basamento in cemento armato sul mare. Durante l’ultima guerra serviva per mettere in tensione i cavi di acciaio e le reti metalliche con l’obiettivo di sbarrare l’accesso al porto. Una struttura simile esisteva dall’altra parte del golfo. La piccola costruzione di Cala Saccaia veniva chiamata Su Vinci. Forse perché sul macchinario oggi scomparso era applicata una targhetta in inglese con su scritto Winch. E a proposito di Cala Saccaia, sul libro di Usai si legge: «Secondo il linguista Max Leopold Wagner, il toponimo deriverebbe dal catalano segall, termina che indica il capretto che ha meno di un anno». Più in città, dove adesso c’è l’ex area Sep trasformata in sede universitaria, in fondo a via Dei Lidi, alcuni vecchi olbiesi identificano l’area come Punt’Istaula. Il toponimo risale al periodo giudicale e sarebbe legato al fatto che in questo tratto di costa si trovavano alcune stalle per mucche e cavalli. L’area oggi occupata dal parco Fausto Noce, che a sua volta porta il nome di un aviatore nato a Tempio, un tempo si chiamava invece Sos Salineddas. Il motivo è semplice: la zona, prima delle bonifiche dei primi del Novecento, era una palude.
Signora Maria. Anche in pieno centro i toponimi antichi si sprecano. Se ne contano a decine. Una curiosità: quello che oggi tutti chiamano molo Bosazza in realtà è il Poltu Ezzu, cioè il porto vecchio. Il Bosazza è invece il molo più piccolo che, per chi arriva dal lungomare, si incontra poco prima sulla destra. Venne costruito dopo la guerra per permettere di scaricare i materiali per la costruzione delle case popolari di via Roma. Come si chiamava l’impresa al lavoro? Bosazza. Numerosi anche i toponimi all’interno dell’insenatura su cui si affaccia il nuovo lungomare. E sono tantissimi quelli racchiusi nell’area che oggi viene generalmente chiamata Mogadiscio. Ah, Mogadiscio è la capitale della Somalia e la storia dice questo: un olbiese che partecipò alle “imprese” coloniali italiane in Africa chiamò il suo asino Mogadiscio, poi l’animale morì e, a quanto pare, venne sepolto da queste parti. È in questa fetta di città compresa tra il rione della Sacra Famiglia e Poltu Cuadu che si contano decine di toponimi, anche per la via della presenza di numerosi scogli e isolette. Oltre all’isolotto del bue marino ci sono S’Isula de su Causéddu, cioè del gabbiano, S’Iscogli’e s’Azzu, dell’aglio selvatico, e la S’Isula Manna, l’isola più grande del golfo. Ricca di storia è l’Isola Lepre, che in realtà veniva chiamata anche in altri tre modi: Iscapittadas, che sta per scapezzato, S’Isula de Frades Chirigones e S’Isula de Signora Maria. Quest’ultimo toponimo ha un suo perché: sull’isola lepre si trovava infatti una casa di tolleranza e Maria, a quanto pare, era la donna che gestiva la struttura a luci rosse.
Simone e il fucile. Poco lontano c’è invece un tratto di costa che gli olbiesi di un tempo chiamavano Iscacciau, che sta per scacciato. Era il soprannome di un terranovese, Simone Spano, che da queste parti aveva i suoi terreni. Un giorno al suo stazzo si presentarono due arzachenesi. «Nacque un diverbio – si legge nel primo libro di Simplicio Usai –, volarono parole e minacce, forse per vecchi dissapori riguardanti alcuni terreni. Compresa la situazione, Simone entrò in casa, prese il fucile e due cartucce e le mostrò ai due uomini, indicando prima uno e poi l’altro: “Una è per te e l’altra è per te!”. Appena accennò a caricare l’arma, i due fuggirono a gambe levate e non si fecero più vedere». Simone Spano, dopo la difesa armata dei suoi terreni, si guadagnò così il soprannome di Iscacciau, scacciato. Un nome che lasciò poi in eredità a un piccolo tratto di costa nella zona di Poltu Cuadu, che a sua volta, scritto con la C e non con la Q, significa porto nascosto.