Amore e odio nel mondo magico e femminile di “Istella mea”
Nel romanzo di Ciriaco Offeddu appena uscito per Giunti la tradizione millenaria della Sardegna
(ricevo e pubblico ben volentieri questa recensione del libro “Istella mea” di Ciriaco Offeddu, Giunti editore, subito dopo la presentazione del volume nella libreria Coop del Centro commerciale Centro gotico in via Emilia Parmense di Piacenza su iniziativa del Gremio sardo “Efisio Tola” in collaborazione con Librerie.coop) (lp).
Un libro che racconta un amore così intenso da sopravvivere alla morte. Una storia che descrive legami capaci di sormontare le onde degli oceani. Un romanzo che narra quanto l’odio possa resistere allo scorrere del tempo. Sono tante le definizioni che potremmo attribuire a "Istella mea” di Ciriaco Offeddu, e ciascuna di questa sarebbe tanto veritiera quanto incompleta.
L’amavo come si ama a tredici anni, con stupore, perché il primo amore toglie il respiro.
L’incipit della storia è il primo anello di questa catena che intreccia amore e odio, incontri e perdite, partenze e ritorni che incalzano il lettore per condurlo in un avventuroso viaggio tra la Sardegna, terra d’origine dei protagonisti, e l’Argentina, l’altrove malinconico in cui si agitano i tumulti delle loro anime. È in una Nuoro dei primi Sessanta che Rechella scopre l’amore per Martino e per la sua estrosa fantasia, così fervida da farlo alzare in volo per raggiungere il mare lontano. Un mondo magico che ruota attorno alla figura enigmatica di Jaja, la nonna di Martino, di cui Rechella subisce il fascino maligno a cui sarà tentata di cedere per tutta la vita.
Se è vero che tutti i protagonisti del romanzo indossano la medesima inquietudine – quella di chi si sente abbandonato e di chi abbandona, di chi vuole dimenticare tutto e di chi si sente dimenticato – i personaggi femminili vestono una forza ancestrale e prodigiosa: “Istella mea” è decisamente femmina. La forte caratura delle sue protagoniste incarna il carisma e la risolutezza che da sempre in Sardegna contraddistingue il femminile.
Lo stile narrativo di “Istella mea”, non dissimile dallo stile dei contos de foghile propri della tradizione millenaria dell’Isola, è puntellato da metafore suggestive (“il ricordo scatta come una pattadese”) e da frasi che calano come verdetti a definire le vicende dei protagonisti (“vivo in attesa come una fionda”). La narrazione riscrive la realtà amalgamando elementi reali e immaginifici in una miscellanea che li rende indistinguibili, e con un’intensità che rimanda al realismo magico di Marquez. In questo parallelismo, Nuoro, come Macondo, diventa paradigma dell'esistenza umana. Ma se i membri della famiglia Buendìa appaiono travolti da un destino ineluttabile, nelle pagine di “Istella mea” i personaggi, le cui solitudini si sfiorano e si corrompono, combattono contro la sorte che li perseguita. Nel Male che permea le loro vite, ogni volta si apre loro la possibilità del Bene, l’occasione di uscire dalla spirale che li inghiotte perché
“abbiamo solo un modo di resistere al buio che avanza: tenere accesa la nostra luce”.
A Ciriaco Offeddu siamo grati per come, in questo onirico e visionario romanzo d’esordio, ha raccontato l’emigrazione e le sue implicazioni.
Nella sua narrazione, lo spuntone di roccia da cui Martino tenta di spiccare il volo diviene parabola della forza dilaniante della scelta, dello strappo che si genera nell’anima divisa tra il desiderio di raggiungere l’Altrove e l’attaccamento alla Terra che si considera Madre. È questo strappo a infondere il senso di sradicamento, di “irrealtà della dislocazione”, il sentimento che nella nostra lingua si definisce disterru e che accompagna e perseguita i sardi che si perdono fuori dall’Isola.
(*) Insegnante originaria di Samatzai, vive a Piacenza da circa trent'anni. È responsabile (assieme a Fabiana Manca) della sezione Cultura del Gremio sardo “Efisio Tola” di Piacenza