Giacomo Agostini: «La mia vita a duecento all’ora è stata un sogno irripetibile»
La storia del numero uno del motociclismo diventa un film: «Ho vinto quindici titoli iridati e ogni volta avevo più fame di prima»
«Le vittorie sono come le ciliegie. Ne assaggi una e ti piace, poi ne mangi un’altra e un’altra ancora e a un certo punto non vuoi più fermarti. Per me sulla moto è stato così». Parole e musica di Giacomo Agostini, semplicemente il più grande. Ottantadue anni, quasi ottantatrè, portati con la leggerezza con la quale da quasi mezzo secolo porta sulle spalle quei 15 titoli mondiali che ancora oggi sono un record imbattuto e chissà se mai un giorno verrà superato. La sua storia è diventata un docufilm, in uscita in queste settimane. Ma la sua vita lo era già, un film.
Come si è trovato dietro la macchina da presa?
«A mio agio. Erano tutte storie che conoscevo abbastanza bene...».
La prima di “Ago” a Riccione è stata un successo. Com’è stato rivedersi sul grande schermo?
«Bello, davvero, è stato emozionante. Rivedere il mio passato tutto insieme mi ha commosso sino alle lacrime. Poi anche la location era perfetta: l’Emilia Romagna e i motori sono una cosa sola».
Proprio come lei.
«Non so cos’altro avrei potuto sognare e avere di meglio nella mia vita. Sono stato fortunato. Amavo andare in moto, sognavo di gareggiare, poi sognavo di vincere una gara e ci sono riuscito. Ho vinto il titolo italiano e da lì è cominciato tutto. Sarei un vigliacco se mi lamentassi della mia vita. Ho vissuto, fatto e goduto di cose talmente belle che oggi ho un solo rammarico: Non potrò più averle».
La fortuna, per un pilota di motociclette che ha vissuto tutta la vita a duecento all’ora, è anche essere arrivato alla sua età. Vivo, integro, lucido.
«Altri non hanno avuto questa fortuna, ma quando sei in moto, sei giovane e vuoi vincere non pensi tanto a quello che ti potrebbe succedere o ai rischi che corri a 200 all’ora. Ti abbassi la visiera, vai più veloce che puoi e non c’è niente di più bello al mondo».
Lei comunque è stato uno dei pionieri della sicurezza in pista. È anche grazie alle prese di posizione di un campione come Giacomo Agostini se nel corso degli anni molte cose sono cambiate.
«Mi sono sempre battuto per la sicurezza, ho cercato sempre di dire la mia sulle protezioni, dalle balle di paglia, alle tute ai caschi. Se pensiamo che ai miei tempi indossavo una tuta da un chiletto scarso, mentre ora le tute dei motociclisti pesano 9 chili, direi che strada ne è stata fatta. Poi c’è quella cosa che si chiama destino, che fa la differenza. Ma anche il destino può essere “aiutato”».
Lei è stato un precursore anche da un altro punto di vista: ai suoi tempi i piloti non facevano esattamente una vita da sportivi, mentre lei curava tantissimo l’aspetto fisico. Quando ha avuto questa intuizione?
«Più che un’intuizione è stata una necessità. Già nei primi anni quando andavo in sella alla Morini, e a maggior ragione negli anni successivi con la Mv Augusta, mi sono reso conto che dietro di me c’erano al lavoro grandi professionisti. Vedevo che l’azienda spendeva tanti soldi per mettermi nelle migliori condizioni e pensavo che fosse naturale, oltre che necessario, essere all’altezza. Non era più uno gioco. Cioè mi sentivo responsabile nei confronti di chi investiva su di me».
E allora si allenava come un maratoneta.
«Ma no, diciamo che cercavo di essere in forma, curavo l’alimentazione e cercavo di avere una vita regolare. In verità la mia era tutt’altro che una vita regolare, non ho mai fatto il prete e ho vissuto in simbiosi con le due ruote. Magari a volte eravamo io, le due ruote e altre due gambe...».
In effetti la sua fama di sciupafemmine si avvicina a quella di campione. Lei è stato anche uno dei primi personaggi mediatici legati allo sport italiano.
«Ho fatto tante cose: fotoromanzi, caroselli, film. Anche questo è stato divertente, perché ho imparato tante cose, ho capito come si gira un carosello e tutto il resto. Ma io vivevo alla giornata e dicevo sempre sì: se hanno piacere ad avermi, pensavo, perché non dovrei andare? E anche con i tifosi avevo un bellissimo rapporto, non mi sono mai negato».
Molti sportivi sostengono che vincere sia difficile, ma ripetersi lo sia di più. Come è arrivato a 15 titoli mondiali?
«La fame e l’egoismo degli sportivi non hanno limiti, vorresti sempre vincere. Ti spinge l’amore per il tuo sport, la passione per la competizione, la voglia di primeggiare. Come le ciliegie: vinci una volta e faresti qualsiasi cosa per ripeterti. Io non ho mai sentito il peso del numero di titoli che cresceva, piuttosto mi sentivo un’altra responsabilità».
Nei confronti di chi?
«Del team, del pubblico. La gente viene a vederti, gioisce con te, sta male come te se non hai vinto. Io lo so bene che il risultato positivo o negativo di un tuo idolo può condizionare l’umore delle persone. Questo mi ha sempre pungolato, insieme ovviamente a quella cosa che i campioni hanno nel dna e sentono nello stomaco: l’adrenalina della competizione. Io ho sempre voluto primeggiare, mi sono sempre sentito un cannibale. Come Eddy Merckx, Cassius Clay, Diego Maradona».
Come viveva le sue rare sconfitte?
«Malissimo, ovviamente. Soprattutto se sei abituato a vincere, una sconfitta di rende triste, fa male. Poi però bisogna ripartire, e anche questa è una molla. Rimettersi in discussione è fondamentale: se diventi dipendente dalla vittoria e ti senti forte, il più forte di tutti, magari molli un po’ la presa. Io ho sempre pensato che nella gara successiva sarebbe potuto spuntare fuori uno più forte, magari più giovane e con più entusiasmo. E quindi non ho mai mollato di un centimetro nella preparazione, in gara. Mai».
Poi arriva il momento di scendere dalla moto...
«Un momento duro, perché lasci il tuo grande amore, lasci il regalo che Dio ti ha fatto e che ti ha portato tante gioie. Io però non sono mai sceso per davvero dalla moto: anche oggi ogni giorno mi metto in sella. E sogno e mi emoziono come tanti anni fa».
Oggi Giacomo Agostini in MotoGp come sarebbe?
«Forse mi divertirei un po’ meno, perché l’elettronica dà tanto ma toglie tantissimo al pilota. Noi non avevamo alcuno strumento per capire cosa stava succedendo, era tutta una questione tra pilota e meccanici. Però le gare le seguo sempre, il profumo del carburante e il rombo dei motori hanno un fascino immutato».
Che nonno è?
«Come gli altri. Faccio le videochiamate con mia figlia che vive in Spagna per vedere la mia nipotina. Un giorno la porterò sulla moto con me».
Nella sua vita c’è tanta Sardegna.
«Tantissima. Ci vengo ininterrottamente da quarant’anni. Avete... anzi se mi consente parlo in prima persona: abbiamo il mare più bello del mondo e tante altre cose. Se penso a un posto dove stare bene e rilassarmi, penso alla Sardegna».
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