Gli archeologi tornano a Cabras alla scoperta di una città sepolta
L’indagine transdisciplinare partita il 17 ottobre scorso coinvolge le università di Sassari e del Salento, di Cagliari e del Politecnico di Torino, che lavorano in sinergia con la Soprintendenza di Cagliari e delle province di Oristano e Sud Sardegna
Cabras Di fronte all’esposizione dei Giganti, custoditi nel museo civico Giovanni Marongiu che s’affaccia sullo stagno di Cabras, l’intuizione degli studiosi, già alle prese con i primi rilevamenti, potrebbe far riaccendere i riflettori su uno dei territori della Sardegna dove il fascino della scoperta ha già ampiamente stupito il mondo dell’archeologia e non solo. Perché lo stagno di Cabras inizia a rivelare parti di un glorioso passato, tutto ancora da scoprire e studiare. Gli archeologi le chiamano “evidenze”: tracce materiali provenienti dal sottosuolo o dalla superficie topografica che forniscono informazioni sulla nostra storia. E che hanno dato impulso a quella che potrebbe rivelarsi una magnifica caccia al tesoro. Nel caso specifico si tratta di gruppi di massi sporgenti di varia grandezza, situati lungo la sponda ovest della grande laguna. A riportarli alla luce, ripulendoli da folti strati di vegetazione, dal fango che li ricoprivano, l’equipe di studiosi protagonista del progetto “Paesaggi d’acqua. Ricerche nello stagno di Mar’e Pontis”.
L’indagine transdisciplinare, voluta e finanziata dalla Fondazione Mont’e Prama, in accordo con le università di Sassari e del Salento, e con il coinvolgimento dell’università di Cagliari e del Politecnico di Torino, e in sinergia con la Soprintendenza di Cagliari e delle province di Oristano e Sud Sardegna, è partita ufficialmente lo scorso 17 ottobre. Dopo le prime uscite in acqua, nelle quali gli archeologi hanno esplorato con dei picchetti il fondale di alcune aree dello stagno, «martedì si è deciso di indagare la zona paludosa sulla sponda occidentale». Per il gruppo l’appuntamento è al Museo civico Giovanni Marongiu. A Scaiu due barche messe a disposizione dai pescatori del Nuovo Consorzio Cooperative Pontis attendono gli studiosi. Ci sono l’archeologa Rita Auriemma dell’università del Salento e l’archeologa subacquea Emanuela Solinas. Con loro Pierpaolo Carta, l’archeologo Luigi Coluccia, il direttore tecnico Angelo Colucci, il ricercatore Cristiano Alfonso, Fenisia Cipolla, laureanda all’Università La Sapienza, e l’assistente Paolo Ligia. Pochi minuti dopo le 8.30 si parte verso la sponda occidentale dello stagno. L’attraversata dura circa 20 minuti. Non sono ancora le 9, quando le due barche approdano sulla sponda ovest dello stagno, nei pressi di un’azienda agricola per poi raggiungere un’area paludosa nella quale era già stato fatto in precedenza un sopralluogo. «Qui abbiamo ritrovato frammenti di ceramiche e di utensili di epoche diverse, ci sono tracce di presenza umana che vanno dal Neolitico fino al Medioevo», rivelano le archeologhe Rita Auriemma ed Emanuela Solinas.
Formate due squadre, la prima coordinata dalla dottoressa Auriemma, la seconda dalla dottoressa Solinas, si inizia a scavare nei primi due siti e a rimuovere la vegetazione che sovrasta le pietre con zappe, picconi e trince. Molto spesso le radici sono particolarmente forti e difficili da asportare e l’acquitrino non semplifica il lavoro. Pian piano, però, emergono quelle che sembrano sequenze di massi e pietre. Cresce l’emozione. Il primo sito è caratterizzato da una serie ravvicinata di massi megalitici di basalto, con una lunghezza di otto metri e settanta centimetri e una larghezza di cinque metri e settanta. Il secondo, invece, più ad ovest, in prossimità dell’attuale riva dello stagno, presenta una serie concentrata di piccole pietre basaltiche. Nella terza area si trovano due massi vicini, mentre nella quarta il lavoro di pulizia fa riemergere un’altra sequenza di pietre megalitiche, stavolta con una forma irregolare e in parte in arenaria oltre che in basalto. Prima di mezzogiorno c'è tempo per una pausa caffè. Arrivano scope e palette e vengono così ripulite accuratamente in superficie le pietre delle aree scavate. Altre due evidenze, poste più ad est, saranno indagate nei prossimi giorni. Nel primo pomeriggio, dopo una seconda pausa per un piccolo spuntino, si torna alla base. L’equipe può essere soddisfatta del lavoro svolto: toccherà ora agli esperti del Politecnico di Torino entrare in azione e dare le prime risposte.
Per il Politecnico a Cabras opereranno Filiberto Chiabrando, professore associato in Geomatica, il dottor Paolo Felice Maschio e la ricercatrice Beatrice Tanduo. «Utilizzeremo droni multirotore che acquisiscono immagini ad alta risoluzione, 40 mega pixel per ogni singola immagine - precisa Chiabrando -. Li utilizzeremo per realizzare dei modelli tridimensionali, modelli digitali di superficie e delle ortofoto utili alla documentazione 3D di alcune aree della laguna. Poi integreremo questi dati alla cartografica già esistente». Si tratterà di operazioni delicate e meticolose da eseguire con grande precisione. «Il nostro sarà un lavoro molto accurato, fondato sull’accuratezza dei dati. Avremo una dimensione del pixel a terra, valore anche questo molto importante, di un centimetro». Ma che procedura seguiranno gli esperti? «Collegando i rilievi di dettaglio con i dati già esistenti, ovvero cartografie e modelli di superficie, daremo un quadro di insieme delle evidenze individuate dagli archeologi, e riusciremo ad indicare quelli che possono essere le linee direttrici, i percorsi e i tracciati principali. Pian piano ricostruiremo quello che loro stanno scavando e studiando e proveremo a ricollegarlo con la situazione attuale.
È la prima volta che simili tecnologie vengono utilizzate per studiare lo Stagno di Cabras». L’apporto dei tecnici torinesi sarà decisivo anche nelle ricerche subacquee. «In questo caso proveremo a fare rilievi strumentali con sensori che potranno essere Single beam, Multi beam o Side scan sonar, i quali verranno trasportati dai natanti automatici - afferma Chiabrando - e con droni marini. Si sperimenterà l’utilizzo e l’interazione di droni marini per analizzare possibili discontinuità nel fondale. Faremo sperimentazione tecnologica sia nella parte terrestre che in quella subacquea. Attraverso la tecnologia che metteremo in campo, proveremo a dare delle risposte». L’obiettivo è chiaro: «Ricostruire ogni singolo pezzettino per ricomporre il mosaico di quella che era la storia passata dello stagno».