Il mistero dei fenicotteri: così nacque l’antica leggenda della “gente rossa”
Conosciuti da sempre nelle lagune del Sinis tra San Vero Milis e Cabras e dell’Oristanese, solo di recente hanno iniziato a nidificare nel resto delle zone umide della Sardegna
San Vero Milis Come i fenicotteri affondano le loro zampe nelle acque melmose delle lagune sarde, questa storia affonda la sua origine in un passato non ben definito, fatto di miti e leggende che per secoli si tramandavano oralmente nei paesi della Sardegna. Quella di sa zent’arrubia (tradotto letteralmente dal sardo la gente rossa), se la si vuol dire col dialetto di San Vero Milis, o di sa genti arrubia, se ci si sposta di qualche chilometro arrivando a Cabras, è ancora presente e viva nella memoria degli abitanti dei paesi del Sinis. Sino a poco più di trent’anni fa erano proprio loro tra i pochi in Sardegna ad aver avuto il privilegio di conoscere da vicino quegli uccelli magnifici dal colore rosa. La specie infatti iniziò a nidificare nel Cagliaritano solamente all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, quando scoprì gli stagni attorno al capoluogo e all’area metropolitana e decise che erano un luogo adatto per fermarsi e diventare stanziali. Nelle terre del Sinis e anche nelle altre paludi a sud di Oristano tra Santa Giusta e Palmas Arborea invece i fenicotteri, a memoria d’uomo, ci sono sempre stati.
Erano talmente affascinanti che attorno alla loro meravigliosa figura si è costruita una leggenda che nelle case di San Vero Milis veniva ripetuta spesso, tanto che poi, come sempre accade con le narrazioni popolari, i confini tra realtà e finzione si mescolarono a tal punto da non sapere più dove finisse la realtà e iniziasse la leggenda. È proprio a uno di questi miti che i fenicotteri devono il loro nome in sardo: sa zent’arrubia o sa genti arrubia. Non è certo una definizione scientifica da ornitologo, però è quella che trasforma una storia di convivenza tra uomo e animali in qualcosa di speciale. Secondo il racconto che si faceva nelle case di San Vero Milis – io ho potuto sentirlo da mia madre – quel nome da fiaba lo si deve a un pastorello. La leggenda vuole che il ragazzino si chiamasse Peppino, ma un riscontro sul suo vero nome non esiste più, se mai è esistito. Ebbene, anche per lui, nonostante fosse giovanissimo, arrivò il momento di entrare nel mondo dei grandi. Secoli fa ciò poteva avvenire solo quando si era considerati maturi al punto da poter lavorare. In un paese dove c’erano quasi solo agricoltori e pastori, a Peppino toccò quest’ultimo lavoro.
La leggenda continua narrando che fu il padre, per metterlo alla prova e ritenendolo ormai maturo, a decidere che era arrivato il momento in cui doveva cavarsela da solo. Lo mandò allora a custodire di notte il gregge di pecore che pascolava nei terreni della salina di Sa‘e procus, oggi comunemente nota come la salina di Sale ‘e proccus o ancora Sale ‘e porcus per una trascrizione o traslitterazione dei termini che lascia qualche dubbio sul nome originario del luogo che forse non era tanto la “salina dei maiali”, ma “quella dei maiali” sottintendendo un termine che poteva essere proprio salina. Al di là dell’origine del toponimo, a noi quel che interessa è la leggenda di Peppino e della sua zent’arrubia, la sua gente rossa. Rimasto solo nell’ovile, sul far della sera, quando ormai le ombre si erano allungate sul suo terreno e sullo stagno, il pastorello iniziò a sentire un forte rumore simile a un richiamo stridente. Prima proveniva da un solo punto, poi da più punti della salina e allora il ragazzino si impaurì.
Fu in quel momento che decise di controllare cosa stesse accadendo e gli sembrò di scorgere in lontananza delle sagome di persone vestite di rosso sulla riva dello stagno di fronte a lui. Ebbe paura e si rifugiò nella capanna dell’ovile temendo che potessero vederlo e andare verso di lui. Poi, preso dalla stanchezza, Peppino si addormentò sperando che quel pericolo passasse. Quando l’indomani il padre venne a controllare se tutto fosse in ordine, trovò il figlio ancora addormentato e il gregge comunque ben tenuto. Una volta svegliatosi, Peppino però gli raccontò di quella zent’arrubia, che forse voleva rubargli le pecore. Il padre, incuriosito, andò allora con lui a vedere chi mai minacciasse il suo gregge e con la luce il mistero fu svelato. Non erano ladri, non erano neanche uomini. Quelle sagome rosse erano invece dei meravigliosi uccelli che da quel momento, per tutte le genti del Sinis, ebbero il loro nome. Non fenicotteri, ma zent’arubia o genti arrubia.
Erano talmente tanti quelli che arrivavano in quegli stagni o saline verso primavera che non era infrequente trovare nelle case esemplari impagliati, dopo aver fatto una brutta fine ed essere stati bottino di caccia di qualcuno che si spingeva sin lì per riempire il carniere di selvaggina e si portava a casa anche quel trofeo che non sarebbe mai finito in tavola. La vecchia usanza, peraltro mai praticata più di tanto, da tempo non è più in voga e tra uomo e fenicotteri in quelle zone c’è sempre stata una convivenza pacifica che ha reso il Sinis una terra ancora più estatica. Poi, man mano che le rotte del turismo hanno portato sempre più persone verso la costa di San Vero Milis e Cabras, tutti hanno iniziato a conoscere e ad ammirare da vicino quei bellissimi uccelli dal piumaggio meraviglioso. L’avvio della nidificazione negli stagni di Cagliari e dell’area metropolitana ne ha poi fatto addirittura un simbolo di tutta la Sardegna, tanto che persino la mascotte del Cagliari Calcio è un pupazzo con le sembianze di fenicottero.