La Nuova Sardegna

Il racconto

La storia di Andrea Chessa: il figlio salvo dopo il trapianto, ora lui dona il midollo

di Luigi Soriga
La storia di Andrea Chessa: il figlio salvo dopo il trapianto, ora lui dona il midollo

Il 42enne sassarese: «Volevo restituire la vita e chiudere il cerchio». La storia del piccolo Giò malato di leucemia nel 2015 commosse il mondo

21 agosto 2024
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Sassari Uno su centomila. Un piccolo miracolo. Far combaciare due destini, riaccendere una fiammella, regalare la vita a chi quella luce la vede affievolirsi. Andrea Chessa, sassarese, 42 anni, sa bene cosa significhi rimanere stritolato dentro quella statistica: uno su centomila.

Nel 2015, quell’uno era suo figlio, il piccolo Giò, 6 anni, capelli neri, occhiali spessi, sorriso, ma già il conto alla rovescia inserito, perché la leucemia correva veloce e non faceva sconti. Senza il trapianto nessuna speranza. Quindi i centomila erano i potenziali donatori di midollo osseo necessari per trovare quello perfettamente compatibile. La probabilità è quella di un 5+1 al Superenalotto, con il montepremi più prezioso del mondo: la vita. «Quattro mesi fa ho ricevuto una telefonata inaspettata – racconta Andrea Chessa – mi chiamavano dal centro trasfusionale di Sassari, perché io nel 2015 avevo fatto la tipizzazione ed ero iscritto nel registro dei donatori. Il medico mi ha detto che il mio midollo era compatibile con un paziente».

Poi nessuna notizia, fino a due mesi fa: «Mi hanno contattato dal centro trapianti del Bosinco. Tutto era pronto. Ho detto va bene, non vedo l’ora». Andrea chiude il telefono e scoppia a piangere. «Ho pensato ai genitori di quel ragazzino. Alla felicità che questa notizia gli avrebbe dato. Io l’ho vissuta sulla mia pelle, quando il medico ci comunicò che il midollo aveva attecchito su Giò, che sarebbe sopravvissuto».

Anche la gratitudine può diventare un fardello, e Andrea Chessa aveva fatto il pieno. Aspettava solo il momento giusto per poter alleggerire l’anima, come si fa con le dighe dopo i nubifragi. Ma ha ripensato anche ai momenti di angoscia, come quando per la prima volta il medico pronunciò la parola leucemia: «Fu una sensazione strana. Era come se per me il mondo si fosse fermato. Presente quelle scene dei film al ralenty, dove ogni immagine è ovattata, e c’è silenzio? Mi chiedevo: com’è che intorno tutto continua a muoversi, quando io sento che tutto è diventato immobile?».

E poi c’è la chemioterapia, vedere soffrire il bambino che più ami, il terrore di perderlo: «Lui non ha mai pianto. Non so se si tenesse tutto dentro, o fosse davvero così coraggioso. Ma sembrava non avesse paura». Poi l’attesa interminabile: «Giò è stato molto fortunato. Quell’uno su centomila non è mai arrivato. Nonostante una mobilitazione pazzesca, non solo in Sardegna, ma in Italia e anche nel mondo. Quattro mesi di angoscia, e nessun donatore adatto, nonostante gli elenchi si riempissero di nuovi candidati di giorno in giorno. La leucemia camminava, era rimasto poco tempo, e alla fine ci siamo affidati alla medicina sperimentale e al destino».

Il midollo da innestare è quello della madre, compatibilità al 50 per cento. Rischio altissimo di rigetto, solo 13 interventi tentati in tutto il mondo. Il piccolo Giò parte per l’ospedale Bambin Gesù di Roma. L’intervento riesce, dopo qualche settimana si riaccende la fiammella: «Il medico è venuto da noi e ci ha detto: il midollo ha attecchito. Poi ha parlato con Giò, e in quel momento, per la prima volta, ha capito che ce l’aveva fatta: allora sono guarito! Sono guarito davvero!».

Però i reparti pediatrici sono grandi famiglie, perché la sofferenza dei più fragili diventa fratellanza, comunione di destini. «Vedevo mio figlio che migliorava, ma altri che non ce l’hanno fatta. Bambini che erano entrati in ospedale con lui, come Marta, o tanti altri. E se da un lato ero felice e grato per Giò, dall’altro mi restava una tristezza nel cuore per gli altri meno fortunati. Per me erano diventati come figli». Ora Giò è un ragazzone di 15 anni, frequenta la terza superiore, ama la musica, i videogiochi, i suoi sei gatti e i due cani. Ha rimosso i brutti ricordi della malattia, ci scherza su. La tira fuori solo nei battibecchi per sparigliare le carte, come un jolly : «Sì, ok... ma io ho avuto la leucemia», e tutti ridono.

Andrea Chessa invece è più sereno. Sente un lieve indolenzimento alla ferita, ma anche una sensazione di leggerezza. È in pace, ha pareggiato i conti con l’universo: «Per me si è chiuso un cerchio. Finalmente ho potuto restituire quella vita che ci avevano dato».

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