La vita precaria di un giovane corriere: «È insostenibile, ogni giorno devo consegnare anche 150 pacchi»
Il racconto di Federico, 32 anni.«Siamo assunti a termine e se non raggiungiamo un determinato obiettivo le ditte ci dicono che non ci richiameranno»
Sassari Lo incroci ogni giorno, ma nemmeno lo vedi. È il ragazzo nel furgone bianco che si ferma di fronte al cancello, scarica un pacco e riparte. Fa tutto in pochi secondi, la frenesia di chi è sempre in ritardo, come se fosse programmato per consegnare e dissolversi. È il testimonial errante di un mondo che sgomma e corre sempre più veloce.
Ma dietro quella fretta c’è una storia: quella del corriere di una società che lavora per Amazon, un ingranaggio di un sistema che non si ferma mai, neanche per respirare.
«Siamo macchine», dice Federico, 30 anni – «Macchine che trasportano pacchi – 200, 300 al giorno, a un ritmo di 20 consegne all’ora».
Fanno fermate, gli “stop” come li chiamano in gergo, che sembrano tic di un di un cronometro invisibile. Fermate, consegne, porte aperte e richiuse. Centotrenta, centottanta volte al giorno: parcheggia, consegna, riparti. In cambio hai un frettoloso grazie, ma nessuno che ti consideri davvero. Scivoli invisibile nella quotidianità.
Eppure, se si avesse un briciolo in più di curiosità verso le vite altrui, si scoprirebbe che dentro al furgone c’è quasi sempre un ragazzo, proprio come Federico.
Potrebbe avere vent’anni, forse venticinque, quasi mai trenta. Diplomato, laureato, con un contratto che lo tiene legato al sedile più della cintura di sicurezza.
«Non lavoriamo direttamente per Amazon – spiega – all’inizio sei convinto di aver a che fare con la solidità della più grande multinazionale, di avere il futuro in cassaforte. Ma presto scopri che la realtà è diversa. Chi recluta sono aziende in subappalto, in Sardegna ce ne sono tre: una più grande, due piccole. Loro si spartiscono i corrieri dell’ultimo miglio. Ci assumono con contratti a tempo determinato part-time. Il tutto condito da una promessa sottintesa: più consegni, più sei rapido, più probabilità hai di essere stabilizzato».
Ma è una promessa vuota: «Alla scadenza del contratto, arrivano le solite scuse: Amazon non ha dato parere positivo. Oppure: le tue statistiche non vanno bene. O ancora: ci sarà un calo dei volumi di lavoro. E così ci ritroviamo disoccupati per due o tre mesi, per poi essere riassunti con lo stesso contratto precario e con lo stesso miraggio di stabilità da inseguire».
E allora di nuovo via in strada, a rincorrere un target che non sai mai se hai centrato davvero. Perché c’è un algoritmo che ti controlla, registra ogni tuo movimento, e decide se sei abbastanza veloce, abbastanza efficiente, abbastanza tutto.
«Le nostre giornate iniziano alle 11 e finiscono dopo 8 ore sempre sotto l’occhio di un algoritmo che sa tutto di noi. Dove siamo, quanto tempo impieghiamo per ogni consegna, persino se ci fermiamo troppo a lungo. Anche la pausa, quei trenta minuti di respiro previsti per legge, spesso la passiamo soli, in furgone, perché magari fuori piove o il sole estivo cuoce il cervello. Abbiamo un palmare con un itinerario già delineato in partenza, con tutte le tappe da seguire. Per fortuna possiamo modificarlo, a seconda di come girano le consegne».
La routine di ogni giorno lavorativo diventa statistica, e dentro questi numeri vengono risucchiate anche le persone: «Tu sei andato bene? Forse ti rinnoviamo il contratto. Tu sei andato così così? Probabilmente resti a casa».
Ogni pacco che il corriere porta a destinazione, non è solo un oggetto, ma una cambiale per il futuro. E allora subentra l’ansia da prestazione, la competitività, e purtroppo la guerra tra poveri. «Alla fine siamo lavoratori usa e getta, ma non ce ne rendiamo conto e facciamo di tutto per tenerci stretto questo eterno precariato».
Perché la paga, tutto sommato è più che dignitosa: «Sono assunto part-time – dice Federico – prendo 1.850 euro netti, compresi di tredicesima e quattordicesima. Io vengo dal mondo della ristorazione, ed era ancora più usurante e sottopagato. Una realtà di sfruttamento, dalla quale sono scappato».
Se non ci fosse questo metronomo spietato che scandisce il tempo, il corriere sarebbe anche un bel lavoro. Però non c’è solo l’algoritmo.
«Ci sono le strade, la fretta, le multe e i danni ai mezzi aziendali, che spesso finiscono a nostro carico». Tutto in nome dell’efficienza, che le ditte pretendono ma che pagano i corrieri, a caro prezzo.
Il sindacato? Meglio di no. «Non puoi nemmeno pensarci, perché anche solo pronunciare quella parola significa giocarti il contratto. Non importa se sei a tempo determinato o indeterminato. Chiedere di più, pretendere tutele vuol dire rischiare tutto». E allora stai zitto. Consegni pacchi, sopporti le multe, schivi i clacson. Ma c’è un pensiero che ogni tanto ti assale. «Chiedere scusa». Non per quello che fai, ma per i disagi che porti. Per quelle strade bloccate, per quelle curve prese troppo veloci, per quella fretta che a volte diventa invadenza.
«Vorrei che ci tolleraste un po’ di più – dice Federico - perché quello che sembra un atteggiamento irrispettoso è in realtà una corsa contro il tempo che non abbiamo deciso noi. Ogni volta che ci maledite perché parcheggiamo male, ricordate che dietro quel furgone c’è un lavoratore precario che lotta per il posto».
Ogni tanto, la frenesia presenta lo scontrino, e può essere molto salato: «Ho letto di quel corriere che ha investito una giovane sulle strisce a Cagliari, vicino a Piazza Giovanni. Vorrei fare i migliori auguri di guarigione alla ragazza, ma il mio pensiero va anche al collega: probabilmente verrà licenziato e gli ritireranno la patente. Magari ha famiglia, un mutuo da pagare. Rimanere sulla strada per otto ore al giorno è una grande roulette, le incognite sono dietro l’angolo. Anche io ho evitato per un pelo più di un incidente, purtroppo bisogna metterlo in conto, se fai questo mestiere». Ma c’è sempre la speranza che le cose possano migliorare.
«Mi piacerebbe che il mio sfogo servisse davvero. Che finalmente smettessimo di essere invisibili. Che queste parole arrivino a chi può fare qualcosa, a chi può cambiare le regole del gioco».
Perché, alla fine, Federico, e tutti gli altri ragazzi come lui, non pretendono molto. «Noi non siamo algoritmi, né numeri su una tabella. Siamo persone, ciascuna con i propri sogni, i propri affetti, le proprie bollette e il legittimo desiderio di un futuro più stabile».
Perché non si può vivere come palline da flipper, rimbalzando da un portone all’altro, correndo sempre, senza mai sapere se arriverai da qualche parte.
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