Su Puddu e caso Ovodda, l’animalista Rizzi: «Oscenità e barbarie, una parte di Sardegna è rimasta indietro»
L’attivista: «Gli animali non si uccidono, in quelle manifestazioni lo fanno per gioco. Ho scritto alla presidente Alessandra Todde»
Sassari «Davanti a queste oscenità, bisogna intervenire e in tempi rapidi perché c’è di mezzo il futuro delle nuove generazioni». Scrive così sui social l’attivista animalista Enrico Rizzi, che annuncia di avere scritto alla presidente della Regione Alessandra Todde, chiedendole un incontro urgente sul «Carnevale di Ovodda che si è svolto qualche giorno fa. Violenza e sopraffazione verso i più deboli che solo in un film horror possiamo vedere. Spero di ricevere presto un suo feedback».
L’animalista prima del caso Ovodda, era intervenuto sulla manifestazione di Sedilo Su Puddu in seguito alla quale aveva presentato diffida nei confronto del prefetto di Oristano. «Non ce l’ho con la Sardegna, ci tengo a dirlo. Io condanno quella parte della Sardegna che evidentemente è rimasta indietro anni luce e accetta scene come quelle che abbiamo visto a Sedilo con Su Puddu e a Ovodda». In questa intervista l’animalista spiega la sua posizione.
«Il mio intervento è scaturito semplicemente dall’indignazione - ha spiegato Rizzi – Io contesto questo tipo di feste che utilizzano gli animali, ma dopo il comunicato della prefettura ho ravvisato anche dei reati. La legge vieta l’uccisione di animali per scopi ludici. La prefettura, nel comunicato, ha dichiarato che gli animali utilizzati nell’evento sarebbero stati abbattuti prima della manifestazione, con un veterinario incaricato di certificarne il decesso, per poi essere appesi ai cavi e smaltiti subito dopo l’evento. Questo comunicato mi ha confermato che vengono uccisi per gioco. Non nascondiamoci dietro la tradizione: quello è comunque un divertimento, e il codice penale lo vieta».
Rizzi ha ricordato di aver già ottenuto di far cambiare una tradizione simile a Butera, in provincia di Caltanisetta. «Un’oca veniva uccisa e portata nella piazza del paese, dove veniva presa a bastonate. Fino a qualche decennio fa, l’oca veniva addirittura portata viva in piazza, poi per fortuna la legge lo ha vietato. Con la mia denuncia, la prefettura di Caltanisetta ha disposto che al posto dell’oca si utilizzasse un peluche. Ora, vorrei capire se in Italia la legge è uguale per tutti: perché viene applicata in un modo in Sicilia e in un altro in Sardegna?».
Per questo motivo, Enrico Rizzi ha annunciato che denuncerà il prefetto di Oristano per omissione di atti d’ufficio e contesterà il concorso di reato nella morte degli animali. "«Questo è l’aspetto legale. Da un punto di vista civile, invece, ritengo che sia una vergogna che nel 2025 si debbano vedere queste immagini. Per me tutto questo è violenza, e lo dicono anche tantissimi sardi che mi hanno scritto per dirmi che sono mortificati e non si rispecchiano in queste manifestazioni».
Rizzi ha poi affrontato il caso della festa di Ovodda, definendo anche quello "un fatto gravissimo". «La sindaca ha dichiarato che si trattava di pelli di ovini destinati al macello, ma anche se fosse così, cosa cambia? Mi domando che tipo di valori si vogliano insegnare ai bambini. Tra l’altro non si poteva neanche far sfilare il cammello. La legge vieta di portare per strada animali ritenuti pericolosi, e i cammelli lo sono. Senza contare che anche in questo caso c’è un maltrattamento per lo stress psicologico al quale è stato sottoposto. Se qualcuno ha autorizzato la sfilata del cammello, è un fatto molto grave, ma è altrettanto grave che, in assenza di autorizzazione, non ci sia stato un intervento da parte delle forze dell’ordine. Io pretendo che non venga violata la legge e che le autorità vigilino perché la legge non venga violata. Per questo dico che il Prefetto di Oristano non solo dovrebbe vergognarsi, ma dimettersi».
Ma cosa bisogna fare con le tradizioni? Per Rizzi, la parola d’ordine è evoluzione. «Le tradizioni non vanno cancellate, ma vanno adeguate ai tempi, rispettando gli esseri viventi, tutti. Non possiamo permettere che, in nome della cultura, si perpetuino pratiche che violano le leggi e i principi etici del nostro tempo».