Elio Germano e Toni Servillo raccontano Messina Denaro
Nelle sale “Iddu. L’ultimo padrino” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Quando il 16 gennaio 2023 veniva arrestato Matteo Messina Denaro (morto otto mesi dopo per un tumore al colon), Fabio Grassadonia e Antonio Piazza stavano già da tempo sviluppando l’idea di un film basato sulla vita del boss mafioso latitante da decenni. La sceneggiatura di “Iddu - L’ultimo padrino”, nelle sale dopo l’anteprima alla Mostra del cinema di Venezia, trae libera ispirazione sia dai pizzini ritrovati attraverso i quali il boss continuava a gestire in clandestinità gli affari criminali sia dal carteggio risalente ai primi anni Duemila con l’ex sindaco di Castelvetrano (Antonio Vaccarino) che è stato pubblicato in un libro del 2008 dal titolo “Lettere a Svetonio”.
Nella finzione cinematografica lo scambio epistolare del boss superlatitante avviene con un personaggio che si chiama Catello Palumbo: un politico di lungo corso che ha perso tutto, è appena uscito di galera dopo aver scontato la pena per reati di mafia, e per rimettersi in gioco accetta di collaborare con i servizi segreti allo scopo di aiutarli a scoprire, sfruttando la confidenza che ha con il capo di Cosa Nostra che tra l’altro è anche il suo figlioccio, dove si trovi il suo inaccessibile nascondiglio.
“Iddu” è incardinato con forza su i due protagonisti principali della storia, che sono indubbiamente tra gli attori italiani più importanti in questo momento e davvero capaci di sostenere un film anche soltanto con la loro presenza: Elio Germano nei panni del boss mafioso e Toni Servillo nel ruolo di Catello.
Il primo, Gemano, lavora molto di controllo e sottrazione, il secondo gigioneggia da par suo come si è visto spesso in altri film. Una recitazione molto diversa per caratterizzare al meglio i due personaggi assoulutamente diversi che interpretano.
Se la misura di Germano serve a tratteggiare la diffidenza, la maniacalità e anche la stanchezza del superlatitante Matteo, il tono più istrionico di Servillo delinea la figura di un saltimbanco che pensa di essere sempre e comunque più furbo degli altri. Ad accomunarli si può trovare forse la sopravvalutazione di loro stessi, il gusto per il linguaggio forbito, l’esibizione di una cultura che serve di contrasto al duo di registi per mostrare la loro mediocrità e ridicolizzarli. Il boss, in particolare, nasconde dietro la maschera gelida e impenetrabile da criminale erudito un lato piscologico da bambino alla ricerca di una figura paterna.
Il film si muove sul filo del grottesco, danzando tra tragedia e farsa. La fusione, però, non convince pienamente e la storia è avara di veri momenti di emozione e soprattutto di quella tensione che ci si aspetterebbe da un caccia all’uomo come quella costruita attorno al mafioso latitante. In particolare, la parte riguardante il lavoro dei servizi segreti risulta debole, anche quando si racconta delle mancanze dello Stato per non dire la collusione diretta al mantenimento di uno status quo.
La domanda che anche in questo film viene normale porsi è sempre la stessa: come è mai stato possibile che un malavitoso del calibro di Messina Denaro sia potuto restare latitante e anche molto attivo nei suoi affari per trenta lunghi anni. Resta interessante lo sguardo con cui Grassadonia e Piazza si tengono davanti a questa storia, uno sguardo certamente lontano dal compiacimento manifestato in maniera chiara o più nascosta da molta narrazione nel descrivere i criminali e le loro vite.
Segregato, senza potersi mai fidare di nessuno, il super boss Matteo Messina Denaro vive «come un sorcio» per utilizzare le parole dello stesso attore che lo interpreta nel film, Germano, che è ben accompagnato da una bella colonna sonora firmata da Colapesce.