La Nuova Sardegna

L’intervista

Dario Franceschini: «Nel mio libro una storia d’amore tra due donne e un omaggio a mia nonna sassarese»

di Alessandro Pirina
Dario Franceschini: «Nel mio libro una storia d’amore tra due donne e un omaggio a mia nonna sassarese»

L’ex ministro della Cultura oggi venerdì 6 dicembre presenta “Aqua e tera” a Sassari all’Ex-Ma.ter: «Amo scrivere da sempre ma nei miei confronti tanti pregiudizi per la politica»

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Una storia d’amore, ma anche una pagina di storia del nostro Paese. “Aqua e tera”, quinto romanzo di Dario Franceschini pubblicato da La nave di Teseo, è un affresco dell’Italia nel periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale, con la rabbia di migliaia di braccianti, sfiniti da decenni di lavori di bonifica nelle valli del Ferrarese, all’avvento del fascismo, con quella parte di pianura padana teatro di violenze, soprusi e morte. È proprio in questo clima di odio, in questa società a brandelli che si incontrano Lucia e Tina, la prima figlia di un capolega socialista, la seconda di un agrario fascista. Una storia d’amore, la loro, che sboccia proprio mentre l’Italia va a infilarsi nel suo periodo più nero, sotto tutti i punti di vista. Un romanzo che conferma la capacità di Franceschini di esplorare un territorio, qual è quello letterario, molto lontano dalle aule del Parlamento e dalle tribune politiche in cui siamo abituati a vederlo. Oggi alle 20 l’ex ministro della Cultura presenterà il suo libro a Sassari all’Ex-Ma.Ter in dialogo con Giampaolo Cassitta.

Franceschini, siamo al quinto romanzo, questa volta ambientato negli anni dell’avvento del fascismo. C’è un perché?

«Avevo fatto la tesi di laurea in Storia delle dottrine politiche proprio sul primo dopoguerra. Ero rimasto affascinato da quegli anni terribili di violenza e scontri e ho sempre pensato che prima o poi ci avrei ambientato una storia. A parte le protagoniste e le loro famiglie tutto il resto - nomi, episodi, violenze - corrisponde a verità».

Vede similitudini con l’oggi e il rischio che la storia si ripeta?

«Le violenze politiche, i pregiudizi di genere ci sono oggi come allora in molte parti del mondo. In Italia ovviamente non più, sono cose passate, superate. Nella storia però le cose non si presentano mai uguali, ma sotto altre forme. Oggi c’è un altro clima di violenza, non più politica. Violenze private, personali».

Il romanzo è una storia d’amore, tra donne. C’è qualche riferimento alla realtà?

«Quando si scrive si mescola un po’ tutto: cose vere, cose inventate, ricordi, immaginazione. I personaggi però sono frutto della mia fantasia».

Sui diritti civili, ai tempi, socialisti e fascisti sembrano pensarla alla stessa maniera.

«Purtroppo, quella è una descrizione molto realistica. Un secolo fa i pregiudizi erano fortissimi. Se la storia d’amore nasceva tra donne dei ceti alti scattava la protezione della ricchezza, della notorietà. Se la stessa cosa avveniva in una famiglia di contadini allora si assisteva a violenze inaudite. Il padre fascista e quello socialista infatti reagiscono allo stesso modo. È doloroso pensare a quante persone hanno sofferto perché costrette a sposarsi, ad avere figli, a vivere la vita come una forzatura».

La storia si svolge a Ferrara e dintorni, un territorio che ha vissuto sulla pelle dei suoi uomini e delle sue donne prima le bonifiche e poi la violenza di quegli anni: i giorni ferraresi di Matteotti, l’uccisione di don Minzoni…

«Purtroppo, nei confronti della storia c’è spesso una rimozione superficiale, pericolosa. Quando si vive nella bellezza di una città rinascimentale, circondata da campagne fertili, prosperose ci si dimentica che prima quelle terre erano acquitrini, malaria, miseria che sono state bonificate con la forza delle braccia. E lo stesso discorso vale per la violenza di quegli anni, anche quella abbastanza dimenticata. Nel romanzo tutti quei nomi sono veri, non solo Matteotti e don Minzoni. È pericoloso per una società smarrire la memoria».

Il suo libro è anche una lezione a chi dice che il fascismo diventa brutto sporco e cattivo solo dopo l’asse con Hitler.

«Quella è una lettura superficiale che in parte viene da destra che spesso fa iniziare la dittatura con le leggi razziali e l’entrata in guerra. In realtà il fascismo nasce come ho raccontato io, con violenze, bastonate, omicidi».

Nel romanzo c’è anche una citazione di Sassari. Un omaggio a una terra a cui lei è legato...

«Quella è la storia di mia nonna paterna, nata a Sassari, rimasta orfana, si è poi trasferita prima in Sicilia per poi arrivare a Ferrara. Per tutta la vita ha sognato di tornare in Sardegna. Si chiamava Angiolina Lai».

Oggi sarà a Sassari anche per i 50 anni della libreria Koinè. I libri che sopravvivono alla tecnologia è un’ottima notizia…

«Oggi leggere un libro è oro. In un mondo sempre più accelerato, veloce, frenetico la lettura di un romanzo è una pausa preziosa. Da ministro presi alcuni provvedimenti finanziari a favore delle librerie. E anche durante la pandemia ottenni che le librerie rimanessero aperte come gli alimentari e le farmacie».

Quinto romanzo: quando è nata questa passione?

«L’ho sempre avuta. I primi due romanzi li ho tenuti in un cassetto per anni. Poi nel 2006 ho deciso di pubblicare il primo: ho capito che non avevo a disposizione due vite per fare in una il politico e nell’altra lo scrittore».

Nei confronti del Franceschini scrittore c’è un pregiudizio?

«Assolutamente sì. E fondato anche, perché si diffida dello scrittore che fa politica e del politico che scrive. L’invito che io faccio sempre è: quando leggete i miei libri dimenticatevi chi è l’autore».

Le manca fare il ministro della Cultura?

«Non dimenticherò mai cosa mi disse Obama quando lo incontrai al Colosseo: “There’s no better job in the world”. Non c’è lavoro più bello al mondo che occuparsi di cultura in Italia».

Con Giuli al ministero c’è stato qualche cambio di passo rispetto a Sangiuliano?

«Mi sono dato come criterio quello di non parlare dei miei successori. La critica di un predecessore rischia di essere viziata da una rivendicazione delle cose che ha fatto».

Quarant’anni fa moriva Enrico Berlinguer: cosa è stato per lei giovane Dc?

«Noi entrammo nel partito inseguendo la speranza Zaccagnini. I riferimenti di allora erano Berlinguer e Zaccagnini: non erano due grandi oratori, ma entusiasmavano i giovani perché credevano in quello che dicevano. Merce rara in politica».

Dall’Ulivo al Campo largo. Quale può essere oggi la migliore ricetta per una vera alternativa al centrodestra?

«Non voglio entrare nella cronaca politica...».

È più possibile che vinca lo Strega o che torni a fare il ministro della Cultura?

«Nessuna delle due. Il ministro è ormai un capitolo chiuso, quando vinceremo le elezioni ci saranno altri. Quanto allo Strega, purtroppo sono politicamente marchiato sulla schiena».

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