Pinuccio Sciola: «Una Turandot fuori schema»
Intervista con lo scultore di San Sperate. Mauro Meli lo ha scelto per la nuova produzione
CAGLIARI. «Molti anni fa, sai chi stava seduto là? A tavola, al posto tuo? Svoboda. Sì il grande scenografo Josef Svoboda». Sarà pure un segno no? Pinuccio Sciola rievoca l’episodio. A cena, l’altra sera a casa sua, c’è il light designer inglese Simon Corder che ha il compito di modellare con le luci le pietre con cui lo scultore di San Sperate ha costruito una fortissima e visionaria ambientazione della pucciniana “Turandot” che, con la regia di Pier Francesco Maestrini e la bacchetta del maestro Giampaolo Bisanti al debutterà venerdì al Comunale per la Stagione del Lirico. L’incontro tra i due artisti è di quelli che lasciano il segno. Fatto di continui confronti e piccole scoperte quotidiane come quella di Svoboda che per Corder è il suo maestro. Svoboda scultore di luce che ha influenzato gli sviluppi del teatro multimediale. Per Sciola fu invece Brancusi, padre della scultura contemporanea. «Raccontai a Simon di quando Svoboda venne a trovarmi: lo portai nel mio giardino e accesi dei fuochi attorno alle mie sculture. La sera c’era un po’ di vento che muoveva le fiamme: Svoboda rimase incantato da quell’ondeggiare del fuoco che sembrava far danzare le pietre».
La scommessa è cioè quella di unire la scultura con la scenografia. Brancusi con Svoboda.
«Per me è un fatto assolutamente spontaneo e naturale. Sin dal momento in cui mi è stato chiesto di lavorare all’opera mi è venuto in mente di attualizzarla, portandola alla nostra contemporaneità. Ho pensato alla Pechino dei nostri giorni, all’architettura dei suoi palazzi che sfidano il cielo. Una megalopoli come è New York o Tokyo. Poi c’è la storia di Turandot. Per me non è una favola ma un vero dramma con il sangue e va riportata al livello del nostro tempo. Sembra una vicenda di mafia. Ho immaginato che alla morte di Liù si potesse far entrare in scena un’automobile a tutta velocità con gente che spara con il mitra... Ovvio, qui non si può fare, ma è giusto per spiegare il concetto. Ogni opera andrebbe riportata al tempo di chi va a vederla. Non ci si può limitare alla ripetizione di schemi e modelli visti da centocinquanta anni. Perchè stare ancora a leggere i melodrammi in quel modo? La musica di Puccini naturalmente non si tocca. Anzi è ancora attualissima. Proprio Philippe Daverio l’altro giorno raccontava dell’attualità di quella musica mettendola in relazione con il mio lavoro. Questo è l’aspetto più interessante della creatività. Reinventare continuamente. Si possono ancora vedere quegli abiti larghi dei cinesi, o uccidere Liù con una spada? Qualsiasi opera che non venga riletta con le lenti dell’attualità significa che è fuori tempo».
Ecco quindi la Turandot secondo Sciola. Un dramma moderno e di sangue in una Pechino contemporanea, circondata da grandi palazzi.
«Con questo tipo di sguardo e di provocazioni a mio avviso si può rivoluzionare la scenografia. Questa non deve più restare nel riquadro del palco ma deve uscire fuori dal suo alveo spettacolare andando ad abbracciare il pubblico. Sin dal suo ingresso».
E non è un caso che lo scultore mentre parla, con gli occhi mobilissimi e vivaci, controlli i movimenti degli operai che stanno montando un’altissima scultura di pietra bianca e squadrata. Un monolite immacolato di quindici metri che accoglierà gli spettatori fuori dal teatro, seguito da un altro simile all’interno, mentre per tutto il foyer dei pannelli neri ospitano piccole icone nere, tracciate su china con una canna, quasi fossero ideogrammi di una scrittura misteriosa, o silhouettes di attori viste dall’alto.
«E’ proprio questo – conferma Sciola – il motivo che mi ha spinto a chiedere che venisse collocata all’esterno del teatro quella grande scultura. Il teatro fa parte della struttura urbana della città, partecipa anche esso al progetto di Cagliari, capitale della Cultura. Deve esserne parte integrante. Lo spettatore quindi prima di entrare deve essere subito emozionato dalla dimensione. Si deve inchinare alla cultura, all’arte. Questa imponenza architettonica fa da contraltare alla piccolissima scrittura degli ideogrammi che sta sulle pareti in un continuo scambio di rapporti tra macro e micro».
Sciola, lo scultore che ha dato la voce alle pietre continua a esplorare così la musica
«Il mio incontro con la musica vera si sta approfondendo ogni giorno di più sul filo già segnato dal mio lavoro dentro la pietra».
Un allestimento importante, che ha incontrato anche difficoltà realizzative?
«No. Ho trovato solo alte competenze e capacità professionali unite a grande entusiasmo. Quando ci sono questi elementi qualsiasi problema si supera. Si è lavorato sui miei disegni di getto. C’è una monumentalità che qui con le luci diventa pura poesia. Tutti assieme abbiamo dato vita a un lavoro corale. Ogni cosa è stata discussa, ora con il regista, ora con il light designer che è riuscito a mettere a fuoco elementi che io non vedevo, dando spessore ad atmosfere e sentimenti che sono parte essenziale di un dramma teatrale come è quello di un’opera lirica».
Da sempre appassionato di jazz ha incontrato la lirica per rimanerci?
«Ieri ho avuto la sensazione di trovarmi in mezzo all’Aida! Ecco mi piacerebbe lavorarci. Vedo già una piramide tra la gente... E’ divertente pensare a quello che puoi costruire se sai che attorno a te c’è gente in grado di farlo, come avviene in questo teatro Lirico, uno dei pochissimi in Italia ad avere tali capacità. Questi laboratori sono in grado di lavorare alla grande e vendere scenografie in tutta Europa».
Insomma, non c’è limite alla creatività?
«Quando penso che ci sia qualcuno che lo crede... Come si può fermare la creatività, l’arte e la cultura? Il mio carissimo amico Claudio Abbado diceva che queste sono come l’aria pulita. Non puoi farne a meno. La cultura è anche in un filo d’erba. Ma deve essere fresco»