Il carcere per i mafiosi e i diritti
Giampaolo Cassitta
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Esiste la mafia in Sardegna? Sicuramente esistono i mafiosi, quelli condannati in maniera definitiva per associazione di stampo mafioso e sottoposti al regime di carcere duro. Il carcere duro contemplato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Sono presenti nel carcere di Sassari e in quello di Nuoro e sono un centinaio circa. La recente politica scaturita da un partito (Lega) nei confronti di una visita autorizzata dal capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, in alcuni istituti penitenziari sardi, è stata oggetto di una polemica che ha portato il sardo Renoldi a spiegarne le motivazioni davanti alla commissione giustizia alla camera.
Mi occupo di carcere da ormai quarant’anni e sentire Renoldi illustrare le motivazioni e le scelte in linea con i principi costituzionali mi ha fatto piacere, ma se dopo svariati anni dalla nascita di una riforma si è costretti a giocare ancora in difesa significa una sola cosa: non siamo riusciti ad accettare che le persone presenti in un carcere facciano parte della comunità e il compito dello Stato è quello di favorire ogni integrazione con la comunità esterna. Con i mafiosi il discorso è diverso. Sono persone condannate per delitti indicibili: omicidi, traffici internazionali di stupefacenti, estorsioni, violenze sulle persone ed è necessaria la risposta dura dello Stato. Risposta apprezzata anche all’estero, tanto che moltissime delegazioni di stati europei chiedono sempre più spesso di poter visitare le sezioni dove sono ospitati i detenuti in regime di 41 bis e capire l’organizzazione interna. Renoldi, nel corso dell’audizione, ha ribadito che gli per operatori da anni: il carcere deve tornare a essere un problema politico, cioè un problema della polis, della comunità che deve preoccuparsi a portare dei servizi all’interno del carcere.
È necessario aggiungere un ulteriore elemento: in Sardegna questa preoccupazione riguarda la mancanza di direttori ed educatori, figure necessarie per poter realizzare quelli che il capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria individua come tre pilastri: politiche adeguate per il personale, particolare attenzione del contesto detentivo, il carcere come parte della comunità. L’autorizzazione alla visita all’interno delle sezioni di detenuti sottoposti al regime di carcere duro nasce sotto questo auspicio: consentire alla comunità di conoscere come quel trattamento riservato a chi si è macchiato di orrendi delitti è all’interno di un contesto legislativo. L’associazione “nessuno tocchi Caino” e il partito radicale hanno visitato i penitenziari di Bancali e Nuoro per sentire i detenuti in base al loro vissuto quotidiano. Questa interlocuzione non prevede richieste di pareri sulla giustizia, sulla legislazione o su altri svariati argomenti ed è necessaria in quanto comporta una verifica da parte della polis sul trattamento riservato alle persone sottoposte alla detenzione, necessaria, giusta e ribadita da sentenze passate in giudicato.
Lo Stato non può aver paura della polis, non può e non deve nascondere il funzionamento di un penitenziario relativamente al rispetto dei diritti umani. Conosco le sezioni del 41 bis e conosco chi ci lavora: il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria è un nucleo altamente specializzato, che svolge il proprio lavoro con serietà e senso dello Stato. La visita autorizzata dal Dr. Renoldi è stata accompagnata da uomini di quel reparto che relazionando ai propri superiori hanno affermato che durante la visita non hanno riscontrato nessuna anomalia. Le carceri sarde godono forse di poca attenzione da parte dei vertici sulla questione del personale, ma la professionalità di chi ci lavora quotidianamente è fuori discussione. I detenuti mafiosi sono trattati secondo le regole ed è giusto permangano all’interno di quelle sezioni.