La Nuova Sardegna

Sanremo

Le canzoni come letteratura

di Massimo Onofri
Le canzoni come letteratura

Le canzoni hanno unificato la nazione non meno della televisione. Se una letteratura nazional-popolare è mai esistita in Italia, non la troveremo certo nei romanzi di Susanna Tamaro o di Elena Ferrante, ma nelle canzoni dei Pooh

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Uno dei motivi per cui considero il Novelliere gaìnico di Gavino Ledda, ovvero I cimenti dell’agnello (1995), uno dei capolavori della letteratura dell’ultimo Novecento, sta nel fatto che lo scrittore di Siligo sia riuscito a dar voce allo strazio di una creatura non umana, che però è al centro esatto dell’antica cultura agro-pastorale dell’isola. Proprio al modo dei Tenores di Bitti, che venerdì sera a Sanremo hanno magnificamente duettato col giovane Mahmood, di padre egiziano ma figlio di Anna Frau, sarda di Orosei: un affascinante cortocircuito tra atavica tradizione e postrema modernità. Così il cantante in Tuta Gold «Se partirò/A Budapest ti ricorderai/Dei giorni in tenda quella moonlight/Fumando fino all’alba/Non cambierai/E non cambierò».

I testi, si sa, non determinano mai la bellezza e il successo d’una canzone. E letti per sé stessi risultano quasi sempre imbarazzanti. Se giudicati dalle sole parole, anche i cantautori più rinomati per la loro sensibilità poetica franerebbero malamente. Qualora però volessimo ricostruire la storia ideologica di questo Paese, il suo sistema di valori, lo stato di salute della sua lingua, proprio dalle forche caudine delle canzoni noi saremmo costretti a passare: le canzoni hanno unificato la nazione non meno della televisione. Se una letteratura nazional-popolare è mai esistita in Italia, non la troveremo certo nei romanzi di Susanna Tamaro o di Elena Ferrante, ma nelle canzoni dei Pooh -lo dico senza ironia-, di Toto Cutugno o magari di Claudio Baglioni. I Pooh: «Mi dispiace devo andare/Il mio posto è là/ Il mio amore si potrebbe svegliare/Chi la scalderà». Se poi quei testi proviamo a leggerli col filtro della Letteratura, non mancheranno le sorprese. Così Pupo in Ciao qualche anno fa: «Io da casa subito ti chiamo/Rispondimi presto, rispondi ti amo». Dove sorprende una certa cantabilità che è stata propria -la dico grossa- di certa poesia del secolo scorso, da Saba a Penna, da Bertolucci a Giudici. E oggi? Difficile non cominciare dalla figlia d’un ipnotico cantante morto drammaticamente a 60 anni durante un concerto, la commovente e brava Angelina Mango, anche perché il titolo della sua canzone è quello d’un romanzo famoso di Moravia, La noia.

Sentite qua: «La mia collana non ha perle di saggezza/A me hanno dato le perline colorate/Per le bimbe incasinate con i traumi». E poi: «A me mi viene/La noia/La noia/La noia/La noia/Muoio senza morire». A me mi: ma anche fa sol la. Se Moravia è ridotto a gesto (a urlo), il verso è di sicuro libero, anche se Ungaretti non c’entra nulla. Per restare ai giovanissimi, che dire di Alfa in Vai? Ecco: «Mi han detto che il destino te lo crei soltanto tu/Vai a tempo col respiro e se corri ne avrai di più/Ma se morirò da giovane/Spero che sia dal ridere/Mi han detto se ti senti così vivo/Non guardare indietro mai e vai uh uh». Hanno scritto che si tratta di un inno a proseguire sulla propria strada anche nei momenti di difficoltà: ma Goffredo Mameli, che di inni se ne intendeva, alla sua età moriva per la patria. Così Diodato, che vinse nel 2020: «Tu ancora ti muovi/Qui dentro ti muovi/Cerchi l’ultima parte di me». La domanda sorge spontanea: avrà trovato quello che cercava?

Ma le star di lunga data come se la sono cavata? L’elegante Fiorella Mannoia in Mariposa: «Sono la strega in cima al rogo/Una farfalla che imbraccia il fucile/Una regina senza trono/Una corona di arancio e di spine». Quello che le donne non dicono? Infine Loredana Bertè in Pazza: «Con gli stivaletti a punta/E ballo sulle vipere/Non mi fa male la coscienza/E mi faccio una carezza perché non riesco a chiederle/Col cuore ti ho spremuto come un dentifricio/E nella testa fuochi d’artificio». Una Tristan Corbière che guarda al surrealismo di André Breton: il maledettismo non passa mai di moda e oggi fa rima con consumismo. È vero: una serata «pazzesca», come ripeteva Amadeus, il presentatore più amato d’Italia. Simple man, cantavano i Lynyrd Skynyrd nel 1987. E lui giustamente resta umile.

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