Suicida in carcere a Oristano, la sorella: «Ha segni sul corpo ma ci negano l’autopsia»
La donna chiede di sapere come è morto Stefano Dal Corso trovato impiccato nella sua cella il 12 ottobre 2022
Roma «Mio fratello è morto nel carcere di Oristano, dove si trovava per un processo. E' morto impiccato, mi hanno detto al telefono. Eppure lui non aveva alcun motivo di togliersi la vita, mai aveva manifestato l'intenzione di farlo e anzi aveva preso accordi per un lavoro in un ristorante appena sarebbe uscito, da lì a poco. Mi hanno mandato solo delle foto, poche e in cui tra l'altro era vestito, dalle quale si vedono segni come di presa su un braccio, uno alla testa e sugli occhi. Per ben due volte ci è stata negata la possibilità di fare l'esame autoptico, ma io chiedo che venga fatta chiarezza. Voglio capire come è morto Stefano». A parlare all'Adnkronos è Marisa Dal Corso, sorella del 43enne morto nell'istituto penitenziario sardo il 12 ottobre 2022.
I fatti. «Stefano stava scontando una pena di due anni in casa mia, al Tufello - racconta la donna - Sorpreso per due volte in strada, dove era sceso per portare a spasso i cani, è stato arrestato per evasione e portato a Rebibbia, dove avrebbe finito di scontare la sua pena a dicembre 2023. Dovendo assistere al processo, che si sarebbe tenuto a Oristano dove aveva abitato con la ex compagna e la figlia di 7 anni, ha fatto domanda per essere presente in aula e vedere così la bimba. Glielo hanno concesso, e il 4 ottobre è stato portato a Oristano. Da dove però non ha mai più fatto rientro. Mi venne detto che non c'era modo di riportarlo a Roma, che non ci sarebbe stato un volo prima del 13. Il 12 pomeriggio, intorno alle 16, ho ricevuto la telefonata del parroco del carcere, che senza mezzi termini mi ha detto "suo fratello ci ha lasciati”».
«Inizialmente ho pensato che fosse scappato, gli ho chiesto come fosse possibile, e il sacerdote a quel punto è stato più chiaro, specificando che Stefano era morto, che si era impiccato. Per un attimo ho pensato di morire - dice ancora Marisa - Noi siamo dieci figli, ma lui l'ho cresciuto io perché i miei genitori lavoravano e mamma mi lasciava la poppata da dargli. Arrivavano tantissime telefonate dal carcere, mi dicevano che avremmo dovuto sbrigarci a portare la salma via dal carcere, che non avevano modo e mezzi per trasportarlo all'obitorio, ma noi da Roma come potevamo fare? Non capivo, non sapevo come comportarmi. Abbiamo dovuto pagare le onoranze funebri per portarlo fuori dal carcere. Lo abbiamo fatto mettere in una cassa di zinco e trasferito a Roma per il funerale».
«Da subito la situazione è stata poco chiara, in una relazione della psicologa del carcere veniva sottolineata la serenità di Stefano, la sua mancata propensione a possibili atti di autolesionismo. Quei segni che si vedevano in foto hanno avvalorato il sentore prima e diverse voci poi che qualcosa di brutto fosse accaduto in quel carcere. Ci siamo rivolti al garante dei detenuti di Roma che ci ha messo a disposizione un medico legale, Cristina Cattaneo, per valutare dalle foto cosa potesse essere successo». La dottoressa avrebbe fatto una relazione in cui tra le altre cose diceva che la ferita del collo sembrava riconducibile a strangolamento, ma per togliere ogni dubbio serve l’autopsia, di cui però «è stata negata l'autorizzazione per ben due volte dal pm di Oristano, convinto del suicidio. Tutto lascia presupporre che sia successo altro. Mi hanno chiesto 6mila euro per fare l'esame autoptico privatamente, ma io non li ho perché ne ho spesi 8 mila per riportarlo qui a Roma. Chiedo solo di conoscere la verità, non voglio altro».