Stranos Elementos, musica per dare voce al disagio sociale
Michele Cocchiarella
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Gli Stranos ElementosIl gruppo rap di Porto Torres descrive nelle proprie canzoni il disagio dei tempi attuali e una realtà che spesso viene nascosta
07 ottobre 2011
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SASSARI. E’ tempo di crisi, di proteste, di precari e operai che non arrivano a fine mese. E’ tempo in cui a fare le spese di una realtà compromessa è una gran parte della popolazione che sempre di meno riesce a capire quello che succede. Spesso gli unici mezzi utili per far conoscere alcune condizioni di disagio sociale, economico e lavorativo, sono l’arte, la musica, la protesta pacifica, che aprono gli occhi sull’altra faccia della medaglia, quella più vicina alla gente. Un cambio di rotta, un momento di coscienza che trova la svolta in una comunicazione diretta, di protesta, per spiegare quello che resta nell’ombra. Un lavoro portato avanti anche dagli Stranos Elementos, un gruppo rap di Porto Torres che vive nella città turritana e descrive nelle proprie canzoni il disagio dei tempi attuali e quella realtà che spesso viene nascosta perché complice di un sistema inattaccabile.
Nel 2003, Okio, Rd, Zianu, formano il gruppo uniti dalla comune spinta di supportare la cultura e la tradizione di un’isola, dove terra e acqua cedono il posto al cemento e all’inquinamento, e dove ai contratti e alle regole non scritte viene data la libertà di cancellare la tradizione. In portotorrese e in logudorese il gruppo ha parlato di chimica, società, crisi, ma anche vento, mare, pastorizia e tutto ciò che è patrimonio sardo. Dal forte spirito indipendentistico, gli Strani elementi hanno trattato questi temi nei loro due lavori: “Posthudorra in carthurina” nel 2006 e “Resuggontu” nel 2009. Dal sistema attuale che non funziona ai proiettili raccolti nelle campagne. Dai missili sparati nelle esercitazioni delle zone militari alle ciminiere industriali che ogni giorno trasformano l’aria. Vissuti a Porto Torres e protagonisti di questi ultimi anni di petrolchimica, gli Stranos hanno raccontato il loro punto di vista sulla situazione attuale e sulla musica. L’umiltà e la determinazione sono gli elementi di questo gruppo che non resta fermo e continua libero a reagire.
Eredi di trent’anni di zona industriale. Nascere, vivere e lavorarci cosa significa?
Vivere a Porto Torres significa cambiare e vedere una città trasformarsi negli eventi e nei problemi di cui si parla ancora oggi. Trent’anni di zona industriale vuol dire anche famiglie che hanno vissuto grazie a quel lavoro. Due di noi ci lavorano ma perché è l’unica cosa che si può fare per non stare con le mani in tasca in questa città. Abbiamo fatto altri lavori ma non c’è un riscontro.
Mancano le opportunità?
Le opportunità ci sono così come in tutta la Sardegna. Il problema sta nel chi deve crearle. Quando si pensa alla riconversione degli impianti del petrolchimico di Porto Torres, si parla e basta. Per riempire le pagine dei giornali o fare un programma in tv. Si discute per un determinato periodo fino all’esasperazione, e dopo questo, si cambia argomento fino a quando la gente non se ne dimentica. Questa città ha avuto mille scuse. Hanno tolto la gente dalle campagne e dai loro lavori per farli diventare operai.
Avevate già parlato del problema di Porto Torres?
Ne abbiamo parlato anche in “Attenti a lu cani” e “Maranni e Marasorthi”. Nel 2007, con il collettivo Az.namus.nart, abbiamo spostato l’attenzione su quello che erano gli ettari occupati industrialmente dall’Eni, puntando l’occhio sul punto di vista ambientale per incentivare la bonifica. Siamo andati nell’ex cementificio che già anni prima era stato messo sotto sequestro. In un laboratorio abbiamo prelevato flaconi di solventi e li abbiamo scaricati nella piazza di fronte al Comune, vestiti con tanto di tuta anti acido e maschere. Era il giorno della festa patronale. La gente si fermava a guardare i barattoli. Abbiamo spiegato il nostro intento e ci sono state diverse reazioni: da chi era curioso a chi ci ha dato dell’eco terrorista perché avevamo bloccato la piazza durante la festa patronale. Il giorno dopo l’azione, l’ex cementificio è stato rimesso sotto sequestro con denuncia ai diretti proprietari.
Secondo voi qual è il problema?
La gente non sa realmente in che condizione si trovano certi terreni e quali danni realmente sono stati fatti. Il problema di Minciaredda e della collina dei veleni sta nel fatto che si sapeva già da prima. C’è sempre dietro un colosso economico che muove i capitali con diversi sistemi. Una parte di questa città vede la zona industriale come una macchina per fare soldi. A discapito degli altri. C’è chi continua a morire e ammalarsi. Si è sempre parlato del lavoro in funzione del lavoro, e mai degli effetti sulle persone e sull’ambiente.
Da quando ne avete parlato è cambiato qualcosa?
Argomenti scomodi. Ci hanno detto che parlavamo di zona industriale e nel frattempo ci lavoravamo anche, quando non si capisce che il nostro ruolo è quello di parlarne, informare e far conoscere la realtà dei fatti. Ci si trova in una situazione dove non si hanno altre scelte. Il nostro modo di parlarne non è contro l’operaio ma contro il sistema utilizzato per fare lavorare le persone. C’è anche stata gente che ha capito cosa volevamo dire. E ci sono persone a cui non interessa, che non si pongono domande, e che pensano piuttosto a fare i soldi ma non a come hanno i polmoni.
Ora che se ne parla di nuovo cosa succederà?
Niente, a meno che qualcuno non crei un alternativa. Oggi il problema è arrivare a fine mese. C’è il rischio che ricada tutto nel dimenticatoio. Se la gente non vede una soluzione ha paura. Ci hanno messo in condizione di non avere una possibilità. Potevano incentivare il turismo o altri settori, e invece hanno lasciato governare la chimica.
Cosa significa aver parlato di un problema come questo per un gruppo che vive qua?
Dopo l’azione con Az.namus.nart, nel 2007, in sede di lavoro mi hanno allontanato dalle mansioni che svolgevo per darmene altre. Per evitare di creare problemi. Forse dovrei imparare a stare zitto, ma sto facendo e ho fatto una cosa normale: dire le cose come stanno. Facciamo questo senza nessun compromesso e senza nessuna imposizione.
Pensate che quello che dite possa avere un seguito al di fuori della musica?
Stiamo dando un messaggio. Si comunica in funzione di un cambiamento ma non si ha la presunzione che questo avvenga. E’ importante che ci siano persone che capiscano. Al concerto degli Stranos Elementos si viene per ascoltare le parole e il significato. La linea che seguiamo è abbastanza radicale, non per scelta ma per attitudine. Siamo consapevoli che nella società abbiamo un ruolo e anche delle responsabilità. Ci piacerebbe un giorno diventare la colonna sonora di una rivoluzione popolare. La musica ha un potere immenso, ed è libera da ogni censura. Noi facciamo rap e raccontiamo il punto di vista su quello che succede, dai radar al nucleare, dalla pastorizia alla crisi.
Il cambiamento di una società si rispecchia anche nella musica. A quantità spesso non corrisponde qualità, siete d’accordo?
Sì, e oggi dobbiamo ancora toccare il fondo. Nella musica il cambiamento positivo è nell’underground, ma a volte la qualità e il significato di un testo sono apprezzate poco. Chi merita davvero non va avanti. Nella musica, l’underground è la parte dove i brani nascono dal cuore. La mosca bianca esiste ma se vuole cambiare le cose viene isolato perché un anomalia.
Siete un'anomalia?
Sì. Siamo quello che una parte della società non vuole.
Ma l’anomalia è sintomo di qualità?
Mi auguro di sì. Ci riteniamo un’eccezione perché esclusi da tanti giri. A volte ci capiscono più fuori dalla Sardegna che qua.
Com’è diventato il rap oggi?
E’ diverso, e anche l’hip hop è cambiato. Prima non si poteva immaginare di cambiare gli ideali che ti hanno fatto abbracciare questa cultura; oggi invece ce ne sono nuovi che non condividiamo e che si allontanano dalla tradizione. Basti pensare a certi brani che vengono trasmessi in radio o in tv: hanno testi che messi su carta sono privi di significato. L’hip hop nasce quando la gente soffriva la fame. I concerti si facevano rubando la corrente; si cercava un posto dove suonare e si portavano i giradischi. Se prima ci si vestiva larghi è perché non c’erano abbastanza vestiti. Oggi molti prodotti musicali sono costruiti a tavolino da persone che con questo genere non hanno mai avuto niente a che fare, e che dettano le regole per il mercato discografico di massa.
La Sardegna offre spazio ai gruppi rap della propria terra?
La Sardegna è una grande importatrice di rapper italiani, e non si preoccupa di valutare i rapper sardi. Quello che manca nell’isola è il confronto con altri sistemi. Se sei in Toscana e vuoi confrontarti con altre realtà e allargare gli orizzonti, prendi un treno e arrivi in Lombardia. Il problema è legato anche alla spesa che devi sostenere per spostarti nelle altre regioni. Manca anche l’organizzazione: vengono chiamati a suonare cani e porci, con tanto di foglio delle richieste. E i gruppi dell’isola a malapena vengono pagati.
La svolta?
Gli organizzatori dovrebbero dettare condizioni più severe cedendo solo a prezzi onesti. A Porto Torres, dopo che esistiamo dal 2003 abbiamo suonato per la prima volta nel 2011. Come te lo spieghi? Dal 2006 abbiamo prodotto un cd che ha suonato a Barcellona, in Italia, e qua non viene riconosciuto come valore della città.
Dà fastidio quello che dite?
Può darsi, ma continuiamo sulla nostra strada.
Nel 2003, Okio, Rd, Zianu, formano il gruppo uniti dalla comune spinta di supportare la cultura e la tradizione di un’isola, dove terra e acqua cedono il posto al cemento e all’inquinamento, e dove ai contratti e alle regole non scritte viene data la libertà di cancellare la tradizione. In portotorrese e in logudorese il gruppo ha parlato di chimica, società, crisi, ma anche vento, mare, pastorizia e tutto ciò che è patrimonio sardo. Dal forte spirito indipendentistico, gli Strani elementi hanno trattato questi temi nei loro due lavori: “Posthudorra in carthurina” nel 2006 e “Resuggontu” nel 2009. Dal sistema attuale che non funziona ai proiettili raccolti nelle campagne. Dai missili sparati nelle esercitazioni delle zone militari alle ciminiere industriali che ogni giorno trasformano l’aria. Vissuti a Porto Torres e protagonisti di questi ultimi anni di petrolchimica, gli Stranos hanno raccontato il loro punto di vista sulla situazione attuale e sulla musica. L’umiltà e la determinazione sono gli elementi di questo gruppo che non resta fermo e continua libero a reagire.
Eredi di trent’anni di zona industriale. Nascere, vivere e lavorarci cosa significa?
Vivere a Porto Torres significa cambiare e vedere una città trasformarsi negli eventi e nei problemi di cui si parla ancora oggi. Trent’anni di zona industriale vuol dire anche famiglie che hanno vissuto grazie a quel lavoro. Due di noi ci lavorano ma perché è l’unica cosa che si può fare per non stare con le mani in tasca in questa città. Abbiamo fatto altri lavori ma non c’è un riscontro.
Mancano le opportunità?
Le opportunità ci sono così come in tutta la Sardegna. Il problema sta nel chi deve crearle. Quando si pensa alla riconversione degli impianti del petrolchimico di Porto Torres, si parla e basta. Per riempire le pagine dei giornali o fare un programma in tv. Si discute per un determinato periodo fino all’esasperazione, e dopo questo, si cambia argomento fino a quando la gente non se ne dimentica. Questa città ha avuto mille scuse. Hanno tolto la gente dalle campagne e dai loro lavori per farli diventare operai.
Avevate già parlato del problema di Porto Torres?
Ne abbiamo parlato anche in “Attenti a lu cani” e “Maranni e Marasorthi”. Nel 2007, con il collettivo Az.namus.nart, abbiamo spostato l’attenzione su quello che erano gli ettari occupati industrialmente dall’Eni, puntando l’occhio sul punto di vista ambientale per incentivare la bonifica. Siamo andati nell’ex cementificio che già anni prima era stato messo sotto sequestro. In un laboratorio abbiamo prelevato flaconi di solventi e li abbiamo scaricati nella piazza di fronte al Comune, vestiti con tanto di tuta anti acido e maschere. Era il giorno della festa patronale. La gente si fermava a guardare i barattoli. Abbiamo spiegato il nostro intento e ci sono state diverse reazioni: da chi era curioso a chi ci ha dato dell’eco terrorista perché avevamo bloccato la piazza durante la festa patronale. Il giorno dopo l’azione, l’ex cementificio è stato rimesso sotto sequestro con denuncia ai diretti proprietari.
Secondo voi qual è il problema?
La gente non sa realmente in che condizione si trovano certi terreni e quali danni realmente sono stati fatti. Il problema di Minciaredda e della collina dei veleni sta nel fatto che si sapeva già da prima. C’è sempre dietro un colosso economico che muove i capitali con diversi sistemi. Una parte di questa città vede la zona industriale come una macchina per fare soldi. A discapito degli altri. C’è chi continua a morire e ammalarsi. Si è sempre parlato del lavoro in funzione del lavoro, e mai degli effetti sulle persone e sull’ambiente.
Da quando ne avete parlato è cambiato qualcosa?
Argomenti scomodi. Ci hanno detto che parlavamo di zona industriale e nel frattempo ci lavoravamo anche, quando non si capisce che il nostro ruolo è quello di parlarne, informare e far conoscere la realtà dei fatti. Ci si trova in una situazione dove non si hanno altre scelte. Il nostro modo di parlarne non è contro l’operaio ma contro il sistema utilizzato per fare lavorare le persone. C’è anche stata gente che ha capito cosa volevamo dire. E ci sono persone a cui non interessa, che non si pongono domande, e che pensano piuttosto a fare i soldi ma non a come hanno i polmoni.
Ora che se ne parla di nuovo cosa succederà?
Niente, a meno che qualcuno non crei un alternativa. Oggi il problema è arrivare a fine mese. C’è il rischio che ricada tutto nel dimenticatoio. Se la gente non vede una soluzione ha paura. Ci hanno messo in condizione di non avere una possibilità. Potevano incentivare il turismo o altri settori, e invece hanno lasciato governare la chimica.
Cosa significa aver parlato di un problema come questo per un gruppo che vive qua?
Dopo l’azione con Az.namus.nart, nel 2007, in sede di lavoro mi hanno allontanato dalle mansioni che svolgevo per darmene altre. Per evitare di creare problemi. Forse dovrei imparare a stare zitto, ma sto facendo e ho fatto una cosa normale: dire le cose come stanno. Facciamo questo senza nessun compromesso e senza nessuna imposizione.
Pensate che quello che dite possa avere un seguito al di fuori della musica?
Stiamo dando un messaggio. Si comunica in funzione di un cambiamento ma non si ha la presunzione che questo avvenga. E’ importante che ci siano persone che capiscano. Al concerto degli Stranos Elementos si viene per ascoltare le parole e il significato. La linea che seguiamo è abbastanza radicale, non per scelta ma per attitudine. Siamo consapevoli che nella società abbiamo un ruolo e anche delle responsabilità. Ci piacerebbe un giorno diventare la colonna sonora di una rivoluzione popolare. La musica ha un potere immenso, ed è libera da ogni censura. Noi facciamo rap e raccontiamo il punto di vista su quello che succede, dai radar al nucleare, dalla pastorizia alla crisi.
Il cambiamento di una società si rispecchia anche nella musica. A quantità spesso non corrisponde qualità, siete d’accordo?
Sì, e oggi dobbiamo ancora toccare il fondo. Nella musica il cambiamento positivo è nell’underground, ma a volte la qualità e il significato di un testo sono apprezzate poco. Chi merita davvero non va avanti. Nella musica, l’underground è la parte dove i brani nascono dal cuore. La mosca bianca esiste ma se vuole cambiare le cose viene isolato perché un anomalia.
Siete un'anomalia?
Sì. Siamo quello che una parte della società non vuole.
Ma l’anomalia è sintomo di qualità?
Mi auguro di sì. Ci riteniamo un’eccezione perché esclusi da tanti giri. A volte ci capiscono più fuori dalla Sardegna che qua.
Com’è diventato il rap oggi?
E’ diverso, e anche l’hip hop è cambiato. Prima non si poteva immaginare di cambiare gli ideali che ti hanno fatto abbracciare questa cultura; oggi invece ce ne sono nuovi che non condividiamo e che si allontanano dalla tradizione. Basti pensare a certi brani che vengono trasmessi in radio o in tv: hanno testi che messi su carta sono privi di significato. L’hip hop nasce quando la gente soffriva la fame. I concerti si facevano rubando la corrente; si cercava un posto dove suonare e si portavano i giradischi. Se prima ci si vestiva larghi è perché non c’erano abbastanza vestiti. Oggi molti prodotti musicali sono costruiti a tavolino da persone che con questo genere non hanno mai avuto niente a che fare, e che dettano le regole per il mercato discografico di massa.
La Sardegna offre spazio ai gruppi rap della propria terra?
La Sardegna è una grande importatrice di rapper italiani, e non si preoccupa di valutare i rapper sardi. Quello che manca nell’isola è il confronto con altri sistemi. Se sei in Toscana e vuoi confrontarti con altre realtà e allargare gli orizzonti, prendi un treno e arrivi in Lombardia. Il problema è legato anche alla spesa che devi sostenere per spostarti nelle altre regioni. Manca anche l’organizzazione: vengono chiamati a suonare cani e porci, con tanto di foglio delle richieste. E i gruppi dell’isola a malapena vengono pagati.
La svolta?
Gli organizzatori dovrebbero dettare condizioni più severe cedendo solo a prezzi onesti. A Porto Torres, dopo che esistiamo dal 2003 abbiamo suonato per la prima volta nel 2011. Come te lo spieghi? Dal 2006 abbiamo prodotto un cd che ha suonato a Barcellona, in Italia, e qua non viene riconosciuto come valore della città.
Dà fastidio quello che dite?
Può darsi, ma continuiamo sulla nostra strada.