Senato e autonomie, è scontro tra il Sì e il No
Bassu: riforma non perfetta ma necessaria. Meloni: statuto speciale a rischio Mario Segni sceglie di non esporsi ma ha già dichiarato il suo voto favorevole
SASSARI. Dici referendum e pensi a Mario Segni. L’uomo politico che con la consultazione popolare del 1993 portò gli italiani alle urne per abolire il sistema proporzionale, il 4 dicembre sosterrà la riforma Boschi con un Sì. Lo ha dichiarato mesi fa, ma ieri a Sassari, a un confronto fra le ragioni del Sì e i principi del No, organizzato dalla Fondazione Segni, ha indossato una veste neutrale: «La Fondazione non è un movimento politico, noi siamo neutrali. Per questo preciso che oggi sono qui solo da organizzatore del dibattito e non per esporre le mie idee», chiarisce subito Mario Segni davanti al pubblico di studenti, politici e accademici che affolla l’aula magna del dipartimento di Giurisprudenza dell’ateneo sassarese. A duellare su bicameralismo, soppressione del Cnel e revisione del titolo V della Costituzione, sono allora i due ospiti invitati dalla Fondazione, entrambi docenti dell’Università di Sassari: la giovane costituzionalista Carla Bassu, pronta a mettere una croce sul Sì, e Giovanni Meloni, ex deputato di Rifondazione comunista e del Partito dei comunisti italiani negli anni Novanta, convinto sostenitore del No. «Le ragioni per cui votare Sì al referendum del 4 dicembre, sono sia politiche sia tecniche», esordisce Carla Bassu, specificando che lei non ha alcuna tessera di partito in tasca. «La riforma costituzionale è in continuità con tutte le istanze di modifica della nostra Legge fondamentale presentate negli ultimi trent’anni», spiega. «Non è perfetta, ma non può esistere una riforma perfetta, perché la modifica della Costituzione passa necessariamente per un compromesso parlamentare. Non è perfetta ma va nella direzione di sbloccare il Paese». Uno sblocco che parte con il superamento del bicameralismo paritario: «Il bicameralismo perfetto giustifica l’interventismo dell’esecutivo, che è spinto a scavalcare il Parlamento con mozioni di fiducia e decreti per cercare di portare a termine legittimamente il programma di Governo. La riforma quindi non accresce i poteri dell’esecutivo, ma è utile ad accelerare l’iter ora elefantiaco delle leggi». Concetti che non possono trovare d’accordo Giovanni Meloni: «Ci troviamo di fronte a una profonda revisione della Costituzione, che tocca temi cruciali. Per quanto riguarda quello che sarà il nuovo Senato se dovesse vincere il Sì, io rilevo molte contraddizioni. Si dice che c’è necessità di velocizzare l’iter legislativo, ma l’Italia è il secondo Paese in Europa per la velocità di legiferare. Negli ultimi otto anni abbiamo approvato 80 leggi, con una media di una ogni 4,5 giorni», spiega. «Il nuovo Senato, dicono, dovrebbe rappresentare le istituzioni territoriali, ma senza il vincolo di mandato, questo lo vedo impossibile. Inoltre la maggior parte dei temi di cui si occuperà il Senato non ha attinenza con problematiche territoriali. Per esempio la revisione della Costituzione, che sarà fatta con parlamentari non eletti dal popolo, con un chiaro impoverimento della sovranità del popolo». E poi c’è l’autonomia delle Regioni: «La riforma non ha nessun impatto immediato sulle regini a Statuto speciale, come la Sardegna. Per queste prevede una successiva intesa bilaterale con il Governo per la modifica degli Statuti, quindi senza alcuna imposizione», spiega Bassu. Ma per Meloni, l’autonomia della Sardegna è più che a rischio: «la riforma realizza una concentrazione mostruosa di potere nelle mani del Governo e per le materie che resteranno di competenza delle Regioni, introdurrà la clausola di supremazia, che consentirà all’esecutivo di aggirare l’ostacolo. E se lo Stato dovesse avviare una riforma dello Statuto della Sardegna, allora state certi che potremo dire addio all’autonomia».