La Nuova Sardegna

La difesa: anche il padre riconobbe Masala a Orune

di Luca Fiori
La difesa: anche il padre riconobbe Masala a Orune

Marras, il legale di Pinna, rivela il contenuto di una informativa dei carabinieri

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SASSARI. È contenuta in un’informativa del nucleo investigativo dei carabinieri di Nuoro la prova che dimostrerebbe che Stefano Masala la mattina dell’8 maggio di due anni fa si trovava a Orune, a differenza di quanto ha sempre sostenuto l’accusa nel processo che vede imputato il 19enne Paolo Pinna per duplice omicidio e che si sta celebrando a Sassari davanti al tribunale dei minori.

La grande novità, estratta come un asso nella manica ieri mattina in aula dal difensore di Pinna, l’avvocato Agostinangelo Marras, è la dichiarazione fatta dal padre di Stefano Masala che rivela agli inquirenti di riconoscere suo figlio all’interno «della Opel Corsa nelle riprese delle telecamere di Orune». Nella stessa informativa dei carabinieri, datata 8 febbraio 2016, si legge che «Rita Gaddeo, la madre di Gianluca Monni, in un colloquio con il personale incaricato delle indagini, ha esternato il sospetto che Stefano Masala avesse avuto un qualche ruolo nella morte del figlio».

È calato il silenzio ieri mattina nell’aula del tribunale dei minori quando la difesa di Paolo Pinna ha sostenuto - forte dell’informativa dell’Arma fino a questo momento rimasta riservata - che il 30enne di Nule non sarebbe stato ucciso la sera del 7 maggio, così come sempre detto dall’accusa. E a confermare questa tesi, sempre secondo l’avvocato Marras, ci sarebbe un’altra relazione dei carabinieri che in un verbale scrivono che i cani molecolari diedero segni della presenza di Masala nei dintorni del luogo in cui venne bruciata la sua macchina, specificando che i cani possono sentire solo la traccia delle persone vive. L’auto di Stefano Masala infatti venne vista bruciare nei pressi di Pattada alle 23.45 dell’8 maggio e di conseguenza il giovane scomparso doveva essere vivo almeno fino a poco tempo prima. «Quella sera, verso le 21.30 - ha detto ieri l’avvocato Marras ai giudici - a pochi chilometri dal luogo in cui poi venne trovata la macchina bruciata, un testimone vide e parlò con una persona che sembrò turbata e che al 90 per cento gli parve Stefano Masala. Quel testimone, un 50enne di Pattada al di sopra di ogni sospetto, non venne creduto - ha aggiunto il difensore di Pinna -perché i carabinieri diedero per certo che Stefano Masala fosse morto la sera prima e che quindi non potesse trovarsi in quel posto».

A far vacillare la tesi dell’accusa per la difesa di Paolo Pinna ci sarebbero anche una cinquantina di contatti telefonici registrati dagli inquirenti tra Giuseppe Masala (cugino di Stefano) e Michele Taras, fratello di Alessandro, il supertestimone che secondo l’avvocato Marras sarebbe stato in qualche modo condizionato dai parenti dello stesso Masala. Ieri mattina ha iniziato la sua arringa, soffermandosi sui fatti accaduti a Cortes Apertas prima della morte di Gianluca Monni, l’avvocato Angelo Merlini (anche lui difensore di Paolo Pinna) che proseguirà domani mattina. Lunedì scorso il pubblico ministero Roberta Pischedda aveva chiesto per Pinna: «Vent'anni di reclusione», l’equivalente dell’ergastolo per il minorenne (all’epoca dei fatti) che affronta il processo con rito abbreviato.

Secondo la ricostruzione della Procura Paolo Pinna e suo cugino Alberto Cubeddu avrebbero fatto sparire Stefano Masala la sera del 7 maggio del 2015 e poi si sarebbero preparati a commettere l’omicidio di Gianluca Monni l’indomani mattina recandosi a Orune con la sua auto. Quell’Opel Corsa su cui però - stanno alle prime dichiarazioni rese ai carabinieri - al padre di Stefano Masala sembrò di vedere suo figlio.

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