Silvia Melis: «Mai riavrò i 9 mesi rubati ma mi sono ripresa la vita»
Ventitré anni fa il sequestro a Tortolì della consulente del lavoro, oggi 50enne: «Il primo periodo della liberazione è stato anche peggio della carcerazione»
INVIATA A TORTOLí. Silvia Melis, come si fa a togliersi di dosso 265 giorni da sequestrata e poi riprendere il normale corso della vita?
«A dire il vero, tolto il primo periodo successivo alla liberazione che – al netto della sofferenza – è stato persino peggio della carcerazione, la vita poi riprende il suo corso. Con tutte le sue incrostazioni, ma il problema vero è il durante, non il dopo. Ossia: sopravvivere al dolore, alla fatica, alla paura. Superare un tempo che si è dilatato molto più di quanto pensassi».
Il 19 febbraio saranno trascorsi 23 anni dal giorno del rapimento di Silvia Melis. La professionista di Tortolì oggi è una bella donna «50 anni tondi», continua a fare quello che faceva – la consulente del lavoro – prima che il sequestro e il clamore mediatico si impossessasse della sua vita. Almeno per un certo periodo di tempo.
Il suo sequestro, durato così a lungo, e la sua liberazione, si trasformarono in un evento mediatico molto prima dell’era dei social. Come avvenne?
«Bisogna dire che ero molto giovane, avevo 27 anni, e non avevo filtri. Quando riuscii a liberarmi (11 novembre 1997 ndr) e venni portata in questura a Nuoro, c’era già una folla di giornalisti di tutte le testate. Per quasi nove mesi non mi ero potuta lavare, e mentre aspettavo che arrivassero i miei, e mio figlio che allora aveva 5 anni, ero rimasta nel bagno dell’alloggio di uno dei funzionari. Aspettavo e non arrivavano. Nell’attesa, mi aggiustai come meglio potevo: c’erano delle pinzette e pensai di ritoccarmi le sopracciglia. Mai l’avessi fatto».
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Perché?
«Perché quando uscii, ordinata, pulita, un filo di trucco, con la pioggia di domande iniziò il tritacarne: come mai è così a posto, non è possibile che ne sia uscita da sola, sarà almeno tre giorni libera... Non corrispondevo all’immagine standard della sequestrata».
Maledette le pinzette e non solo. Lei fu ospite in trasmissioni televisive, tutti volevano Silvia Melis.
«Sì, un periodo in cui era difficile anche per me avere il pieno controllo della situazione. Il fatto è che da vittima iniziai a passare in una posizione ben più scomoda. Non finì lì, poi ci furono i processi anche per eventi collaterali al mio sequestro. Nei quali ero testimone ma sembrava fossi io l’imputata».
Un po’ come purtroppo accade alle donne vittime di violenze, la vittimizzazione secondaria.
«Andò così. C’è voluto del tempo, ho cercato di capire. Mi facevano domande incredibili, ma non riguardavano la mia volontà. Cercavo di bypassarle. Piuttosto attorno a me si muovevano persone che perseguivano i loro interessi»,
Cosa le proponevano?
«Ma, per esempio se intendessi fare politica, se avrei scritto un libro, o fatto un fiction, o se volessi fare la presentatrice televisiva, per dire...».
E lei? Di tutto questo?
«Nulla: non sono nemmeno andata al Grande Fratello...».
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È rimasta a Tortolì, nello stesso studio di via Campidano. Mai avuto la tentazione di andare via?
«Perché avrei dovuto? La mia famiglia è qui, gli affetti sono qui. Non avrebbe avuto senso. Diciamo che inizialmente c’è stata molta confusione. Era difficile capire cosa fosse meglio, era come essere finita in mezzo a uno tsunami, circondata da tanti consiglieri. A quel punto ho capito che non dovevo ascoltare nessuno. Sono rimasta ferma, aspettando che lo tsunami passasse».
Ma nel frattempo c’erano le indagini, i processi. Aspettando che passasse lo tsunami, come ha affrontato quel periodo prima di chiudere i conti?
«Io in realtà non avevo conti da chiudere in senso stretto. Ossia: non ho mai coltivato rancori, aspettative di vendetta. Desiderio di giustizia, questo sì. E infatti ho cercato di mettere a disposizione di chi indagava tutto quello che avevo memorizzato durante il sequestro. L’ho fatto per senso del dovere, non solo per me, visto che in realtà non mi cambiava nulla: quel che è stato è stato. Ma ho pensato che fosse importante aiutare per dare un segnale, magari per prevenire altri sequestri e evitare che succedesse di nuovo».
Tre persone sono state condannate per il suo sequestro. C’è mai stato un qualche contatto con loro?
«Guardi, io mi sono disinteressata completamente di loro. Avevo l’esigenza di dimostrare che le cose che avevo raccontato erano vere. Dopo il sequestro mi si rimproverava di aver raccontato cose non vere. Ma c’era il segreto istruttorio. Al processo le cose sono tornate al loro posto. E sono fiera di aver ricostruito tutti i luoghi in cui sono stata tenuta, ad eccezione della prima grotta. Ma gli altri il “buco nero”(la casa in via Trento a Nuoro ndr), la “casa delle spine”, il “cespuglio stellato”, il “campeggio”, cioè la tenda a Locoe da dove sono scappata, quelli li ho individuati. Ho ripercorso i luoghi dove ho perso nove mesi della mia vita. Il resto l’ho accantonato, finito il processo. Giornali compresi».
Come, non ha più letto nulla, non conserva nulla di quel periodo?
«No. L’unica cosa che ho sono i ritagli di giornale raccolti da mia nonna, mancata nel 2000, che si riferiscono al processo di Lanusei. Li avevamo trovati successivamente alla sua morte. Li ho tenuti in suo ricordo, solo per questo».
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È rimasta a Tortolì, il figlio ora è grande, si è persino rimessa sui libri. Laurea in Scienze giuridiche, università di Roma, nel 2008. Perché l’ha fatto?
«L’ho fatto davvero per me, prima di tutto, poi per dare un esempio a mio figlio che stava per affacciarsi al mondo universitario. Io sono iscritta all’Ordine dei consulenti del Lavoro dal 1991».
Laurea con una tesi particolare, peraltro.
«In effetti: il licenziamento per giusta causa nel rapporto di lavoro sportivo».
La sua scrivania è di un bel rosso, il colore simbolo della lotta alla violenza sulle donne. È una scelta legata a questo tema?
«Non direi, in realtà, è un colore che mi piace. Scrivania rossa, macchina rossa».
Casa sua è qui vicino. Quando rientra, la sera, le capita di ripensare a “quella” sera, quando venne sequestrata?
«Mi capita ogni sera. Sempre. Non ho flash del sequestro, e non ne parlo mai a meno che qualcuno non me lo chieda. Ma è ovvio che la percezione di certe cose cambia. Se fino a quel momento ero una giovane spensierata di 27 anni, poi sono subentrate altre preoccupazioni. Prima non avevo le inferriate alle finestre, ora ci sono».
Come ha reagito la sua città a quei fatti? E come si rapporta con lei oggi?
«Quello che posso dire è che qui ti prendono per quello che sei, per quello che eri. Non c’è una Silvia prima e una Silvia dopo. Io sono quella che ero. Certo, inizialmente c’era un sentimento protettivo, affettuoso. Questo l’ho sicuramente percepito. Ma negli anni Tortolì è cambiata molto, la popolazione aumentata, la zona stessa in cui vivo è diventata molto più centrale. Penserei che non badino a me, la vita è ripresa nel modo ordinario, come era giusto che fosse».
Di recente lei ha parlato di perdono, e lo ha fatto assieme a Caterina Muntoni, sorella di don Graziano, il sacerdote ucciso. Si può perdonare il male subìto?
«Perdonare è un processo interiore. Io sono credente, la fede mi ha aiutato a superare il dolore durante il sequestro. Ho perso nove mesi della mia vita, della vita di mio figlio. Sono voragini profonde, non c’è una formula specifica per guarire. Ma si va avanti. E la vita ha la meglio».
Così Silvia Melis, 23 anni dopo quel 19 febbraio 1997. Silvia, che dopo 265 giorni da sequestrata, cinque prigioni e svariati processi, non ha smarrito sé stessa.
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