La Nuova Sardegna

L'intervista

Il direttore della Fondazione Agnelli: «Il titolo di studio è importante ma contano di più le competenze»

di Alessandro Pirina
Andrea Gavosto
Andrea Gavosto

Andrea Gavosto sui problemi della scuola. «Al Sud meno pressione delle famiglie per far sì che l’istruzione funzioni meglio»

4 MINUTI DI LETTURA





Sassari A ogni cambio di governo si annuncia una riforma della scuola, ma salvo eccezioni i problemi restano sempre gli stessi. E infatti quando si parla di istruzione l’Italia è fanalino di coda in Europa. A questi problemi atavici mai risolti Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli di Torino, ha dedicato il saggio “La scuola bloccata”, edito da Laterza. Un volume che l’economista presenterà oggi alle 17 a Cagliari nella sala riunioni della Fondazione di Sardegna. Coordinati da Adriana Di Liberto, docente di Politica economica dell’Università di Cagliari, interverranno Francesco Feliziani, direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Anna Maria Maullu, presidente emerito dell’associazione dei presidi dell’isola, e Matteo Frate, coordinatore dell’unità di progetto Iscol@.

Professor Gavosto, da cosa è bloccata la scuola italiana?

«È bloccata da molti punti di vista. Il più preoccupante è che un ragazzo su due che arriva al completamento del ciclo scolastico a 13 anni non raggiunge un livello di conoscenze matematiche adeguate agli ultimi dati Invalsi. Questo è un rischio non solo per il mercato del lavoro ma anche come livello di cittadinanza. Poi ci sono i divari territoriali, i divari di genere per quanto riguarda le materie scientifiche...».

Ma chi ha bloccato la scuola?

«Un ruolo importante nei blocchi lo hanno avuto i veti contrapposti che hanno fatto sì che non si sia mai riusciti a fare cambiamenti che portassero a ottenere miglioramenti per i ragazzi: decisioni politiche sbagliate, blocchi dei sindacati che hanno sempre fatto più gli interessi dei docenti che degli studenti».

Ogni volta che cambia il governo si annuncia una riforma della scuola: perché la politica sente questa esigenza?

«Un ministro dell’istruzione ha una prospettiva di vita di circa un anno, ma in realtà dovrebbe fare una riforma i cui frutti si vedranno dopo venti anni. A quel punto non c’è un incentivo a fare grandi cambiamenti, che quasi sempre sono di facciata. In Italia abbiamo avuto due grandi tentativi di riforme: quella di Berlinguer e la Buona scuola di Renzi. Ma io dico che è ora di dire basta alle grandi riforme, non hanno senso, la scuola non reggerebbe a un altro annuncio in tal senso. Meglio piccoli interventi che poi ne determinano degli altri. Quello di cui oggi c’è bisogno è un maggiore coinvolgimento delle famiglie nella vita quotidiana...».

In che senso?

«Le famiglie devono capire che ciò che conta non avere un titolo. Studiare è importante ma ancora di più è avere un livello di competenze almeno pari a quello dei paesi europei con cui ci confrontiamo. Quello dovrebbe essere il vero obiettivo: comprensione della lingua, ragionamento matematico e scientifico».

Ha parlato di divari regionali. La Sardegna, purtroppo, da anni vanta tristi primati. Su tutti quello nella dispersione scolastica.

«La Sardegna è sotto la media nazionale, ma non è la situazione più critica. Anzi, negli ultimi anni ha registrato un progresso strepitoso per il recupero di studenti che non terminano gli studi. La Sardegna va meglio di Sicilia, Calabria, di gran parte della Campania. Esistono tanti sud come non esiste un solo nord. Ovvio che il recupero sulla dispersione non basta. Conta che i ragazzi stiano a scuola ma anche che imparino».

Imparare non vuole dire solo prendere un bel voto.

«Nessun datore di lavoro oggi guarda solo al voto. Bisogna sapere l’italiano, l’inglese, la matematica. Ma non solo. Una parte del libro la dedico a quelle che sono le competenze del futuro. La tecnologia, i robot hanno cambiato il mondo, ma ci sono situazioni in cui servono capacità di gestire le situazioni di incertezza, quelle che non possono essere risolte dalla intelligenza artificiale. C’è poi l’aspetto creativo, che è unico di noi esseri umani. E ancora la capacità di socializzare, che le macchine non possiedono».

Qual è il suo giudizio sulle prove Invalsi?

«Io sono un grande difensore delle prove Invalsi, che a mio avviso hanno un grande valore. Sono prove serie, fatte bene sia da un punto di vista statistico che di contenuti. A realizzarle lavorano gruppi di docenti che rispondono a competenze curricolari. Forse non colgono tutto, ci sono aspetti che possono essere migliorati, ma sono esattamente ciò che la scuola dovrebbe sviluppare».

Perché sulle prove Invalsi la Sardegna e in generale il Mezzogiorno sono indietro rispetto al resto del Paese?

«Ottima domanda a cui, però, non siamo in grado di dare una risposta. Sicuramente il tempo pieno alla scuola primaria e alla secondaria di primo grado aiutano a ottenere risultati, prima si comincia con il percorso educativo e meglio è. Ma si tratta solo di analisi, per il resto non abbiamo una vera spiegazione. La mia idea è che al Sud ci sia meno pressione da parte delle famiglie, che spingono meno perché le scuole funzionino meglio. Ci si accontenta di più del titolo di studio, mentre dove c’è un mercato del lavoro più internazionalizzato questo non basta più. Certo, il titolo ha un suo valore, ma lo prendono come base. Quello che conta sono le competenze».
 

Primo piano
La storia

Il racconto di una commessa: «Pagata solo 3,50 euro l’ora per lavorare nei festivi»

Video

Rissa furibonda fuori da un locale a Sassari, le impressionanti immagini della notte di follia

Le nostre iniziative