La Nuova Sardegna

Assoluzione

Polina, 24 anni, investita e uccisa a Macomer: nessun colpevole

di Enrico Carta
Polina, 24 anni, investita e uccisa a Macomer: nessun colpevole

L’unico imputato per la morte della ragazza è stato assolto. La disperazione della madre: «Non cerco vendette, ma chi l’ha uccisa è ancora libero»

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Macomer Il telefonino di Larisa Cherednik si riempie di messaggi. La sentenza è arrivata e la notizia inizia a girare: la morte di sua figlia Polina, investita e uccisa in viale Nenni a Macomer il 16 marzo 2018, rimane senza colpevoli. Colpevole non lo è, dopo cinque anni e mezzo di indagini e processi, l’unico imputato per omicidio colposo, il macomerese Antonio Michele Larobina (61 anni) che era accusato di aver investito accidentalmente col suo Suv la ragazza di 24 anni di origine russa che risiedeva a Sassari. Quella sera, a Macomer ci era finita per andare a una festa in compagnia del suo fidanzato e, dopo un litigio, era stata lei a voler scendere dall’auto con la quale i due e un altro amico stavano facendo rientro a casa. Poi, Polina si sedette sul marciapiede di viale Nenni o forse sul ciglio della strada o forse scivolò sull’asfalto, prima di essere travolta da un’auto che, a questo punto, si può definire fantasma.
 

L’assoluzione di Antonio Michele Larobina si porta con sé anche tanta amarezza e un dispiacere che solo il cuore di una madre può comprendere. «Non sono una persona che cerca vendette – dice Larisa Cherednik –, ma da oggi io so che, in giro da qualche parte in questo mondo, c’è una persona che ha ucciso mia figlia e che non ha mai avuto il coraggio di presentarsi per dire che era stato lui. Era una ragazza, non doveva andare così. C’è un codardo che non so dove sia e non si palesa e questo per me è intollerabile – prosegue nel suo italiano con forte accento dell’est, ma sempre comprensibile –. Volevo giustizia, ho trovato un vuoto che fa male. Continuo a credere che, per quanto a Polina sia andata male, ad altri andrà bene con la giustizia, che non può essere negata per una virgola messa nel posto sbagliato».

È una metafora che Larisa Cherednik usa, in cui è chiaro il riferimento a come si è arrivati alla sentenza. Ad aprile 2022, il pubblico ministero Andrea Chelo aveva chiesto la condanna a tre anni. Al termine della sua requisitoria l’avvocata Rossella Oppo, legale dell’imputato, aveva invece sollecitato oltre all’assoluzione l’inutilizzabilità degli accertamenti medici, tra cui l’autopsia, fatti nelle ore e nei giorni successivi alla morte di Polina. Quando questi accertamenti furono eseguiti, Antonio Michele Larobina era già indagato, motivo per cui avrebbe avuto diritto a difendersi durante ogni atto di indagine compresi gli accertamenti sulle precise cause della morte. Invece nessuno gli notificò quell’atto e questo gli impedì di difendersi sin dal primo istante. Fu un errore di procedura che la giudice Serena Corrias ha poi palesato quando ha escluso le perizie mediche dal fascicolo del processo.

A quel punto, il quadro accusatorio è diventato troppo labile e ieri la sentenza ha certificato tutto ciò con l’assoluzione. Se il processo di primo grado si chiude, resta aperto lo squarcio nel cuore di Larisa Cherednik che accumula pensieri e salta dal giorno della morte della figlia all’istante immediatamente precedente a quello in cui sta parlando. Rimescola sentimenti e fatti, cercando di fare ordine anche dentro se stessa: «Ci sono due vicende grandi che mi tengono viva. La prima è la voglia di conoscere chi ha ucciso mia figlia. La seconda è sapere chi ha messo una nuova foto sul palo della luce, di fronte al punto in cui fu investita. Quando morì, lavoravo in un circolo a Sassari. Un signore che mi conosce da allora, qualche giorno fa è stato a Macomer ed è passato lì davanti. Mi ha chiamato per dirmi se avessi messo i fiori e la nuova foto di Polina, ma non sono stata io. Però questo mi fa andare avanti, perché vorrei sapere chi ha messo la foto. E io mi ricordo quando mi hanno chiamato in questura per dirmelo, quando ho chiamato il padre di Polina che ha iniziato a urlare. Correvo quando uscivo di casa e facevo finta di parlare con lei al telefono. Non volevo che la gente mi vedesse piangere, per cui piangevo e parlavo con lei. Facevo finta di parlare con lei». Ma Polina non rispondeva più.

 

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