La Nuova Sardegna

Archeologia industriale

L'ex cementificio alle porte di Sassari, tra degrado e impianti in rovina

di Dario Budroni
L'ex cementificio alle porte di Sassari, tra degrado e impianti in rovina

Viaggio all’interno della fabbrica alle porte di Sassari. Inaugurata nel 1957, è chiusa e abbandonata dal 2010

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Muros L’insegna ha perso due lettere e l’erba secca si fa largo tra le crepe dell’asfalto. Dal piazzale in poi ci si sente sempre più piccoli: a passo lento tra colossi di cemento, tubi di acciaio e tre ciminiere che non fumano più. L’unica presenza percepita è quella dei piccioni che hanno trasformato i vecchi capannoni in oscure e polverose voliere. Lo scenario è un po’ da Walking Dead: mancano gli zombie, ma le lancette sono ferme e il passato è andato in rovina. Benvenuti dentro l’ex cementificio di Scala di Giocca, la cattedrale consacrata alla meccanica e alla produzione che sembra fare da guardia all’ingresso della città. Impossibile non alzare lo sguardo, alle porte di Sassari, mentre l’ultimo tratto della 131 finisce per infilarsi nel buio delle due gallerie di Chighizzu. Imponente e dominato dalle enormi ciminiere che caratterizzano il paesaggio, il vecchio cementificio si trova nel territorio comunale di Muros e venne inaugurato da Italcementi nel 1957. Chiuso dal 2010 dopo una lunga agonia, l’impianto è da allora in una situazione di totale abbandono. È dunque un monumento di archeologia industriale di cui non si conosce il destino. Più volte si è parlato di rilanci, bonifiche e progetti di riconversione, ma il cementificio di Scala di Giocca è ancora immobile al suo posto: spento, pesante, silenzioso, quasi sinistro, con le pareti più basse coperte dalla vernice delle bombolette spray.

La storia Il grande impianto si espande in una area complessiva di 80mila metri quadri. E non a caso si trova lungo la linea ferroviaria sulla quale esisteva già la piccola stazione di Scala di Giocca: l’ideale per caricare e trasportare il materiale prodotto a spasso per l’isola. Strategica anche la vicinanza delle cave del massiccio di Canechervu, da cui si potevano reperire le materie prime. Tirato su con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda di cemento proveniente soprattutto dal nord Sardegna, oltre che per dare una risposta alla piaga della disoccupazione a Sassari e dintorni, ai tempi d’oro il cementificio poteva contare sul lavoro di un esercito di quasi mille operai. Molti di loro vivevano nelle abitazioni costruite poco lontane dall’impianto di Italcementi, oggi parte del gruppo Heidelberg Materials. Dagli anni Ottanta, però, l’inizio di un lento e progressivo declino fino alla dolorosa chiusura avvenuta poco più di tredici anni fa, tra cassa integrazione, proteste, scioperi e l’ultima manciata di operai rimasta con il timore di non avere più prospettive.

Il cementificio oggi L’area è privata e circondata da reti, mura e cancelli. A rompere il silenzio tipico dei luoghi abbandonati è il rumore delle auto che corrono nella vicina 131, più la voce metallica diffusa dagli altoparlanti della vicina stazioncina ferroviaria. Per il resto, solo vento e piccioni in volo. Attraversare la vecchia cementeria significa fare un tour in quello che un tempo era il processo di produzione. Il piazzale interno, dove spuntano palme secche e qualche accenno di cespuglio, è un primo assaggio delle dimensioni dell’impianto. Poi, passo dopo passo, tutto diventa sempre più alto e opprimente. Il capannone generale, lungo 120 metri, era il luogo dove venivano depositati i materiali. I macchinari sono ancora al loro posto, coperti di polvere e guano. Stesso discorso nello spazio destinato alla macinazione delle materie prime. Molte aree, le più pericolose, sono transennate e quindi chiuse. In alcune, però, si possono ancora vedere tubi e cartelli, vecchi e più recenti, che ricordano le norme di sicurezza per gli operai. Tra gli elementi più imponenti sicuramente i forni rotanti e i vicini impianti di macinazione. Tutto attorno il laboratorio chimico, l’officina meccanica e le macchine di carico, scarico e spedizioni. Il grosso delle strutture, nonostante l’età e gli anni di chiusura, non è in pessime condizioni. Così come sono ancora in piedi i tre simboli della cementeria: le gigantesche ciminiere posizionate nella parte finale della fabbrica. Tre enormi colonne che, sviluppandosi verso il cielo per decine di metri, da 67 anni modificano in modo decisamente impattante lo skyline dell’intera zona.

Spray e vetri rotti Il cementificio è chiuso, ma l’accesso non è impossibile. A visitarlo, ogni tanto, sono i più curiosi e soprattutto gli appassionati di luoghi abbandonati. Anche i writer, richiamati da una infinità di pareti libere, si intrufolano spesso nel grande impianto, considerato l’alto numero di graffiti e disegni presenti in tutta la struttura. Negli anni, però, qualcuno si è anche divertito a devastare gli interni dei pochi spazi lasciati aperti. Subito dopo il cancello di ingresso, per esempio, i vetri sono stati rotti a sassate: qualche passo e spuntano gli armadietti, i lavandini e le docce degli operai, anche queste non proprio integre, più qualche cumulo di rifiuti di fronte a un calendario di Giovanni Paolo II del 2009. Devastato anche il pronto soccorso: anche qui vetri rotti, mura pasticciate, finestre smontate e pochi macchinari abbandonati fatti a pezzi.

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