Malattie infettive da debellare: la Sardegna nel 1950 fece scuola
Domani alla Cittadella dei Musei di Cagliari il secondo Workshop “Antonio Pigliaru”
Cagliari Si terrà domani nella Aula Rossa della cittadella dei Musei il secondo appuntamento con gli “Antonio Pigliaru Workshop”, incontri dedicati alla Sardegna, ma con uno sguardo sul mondo.
Organizzato da Alberto Bisin, (New York University), Claudio Deiana e Marco Nieddu (Università di Cagliari) Luigi Guiso (Einaudi Institute for Economics and Finance, Mario Macis (Johns Hopkins University) e da Francesco Pigliaru (docente di Economia, ex presidente della Regione e figlio del grande giurista) l’incontro, al quale parteciperanno esperti da tutto il mondo, compreso Bruno Moonen della Bill& Melinda Gates Foundation, quest’anno avrà come sottotitolo “Dalla Sardegna al Mondo: l’impatto della malaria e delle altre malattie infettive sulla salute e sullo sviluppo economico”.
Del convegno e del connubio salute-economia (molto meno evanescente di quanto si creda) parla Mario Macis, economista che dedica proprio alle politiche sanitarie e alla loro ricadute sulla società e l’economia buona parte del suoi studi. Macis, anche editorialista della Nuova Sardegna modererà uno dei quattro panel, quello sugli strumenti oggi applicati nella lotta alle malattie infettive.
Professore, perché l’esempio sardo nella lotta alla malaria pur a distanza di oltre sei decenni fa ancora testo?
«Non sono molte le aree dove si sono decise eradicazioni totali di malattie infettive, non tanto con farmaci ma sterminando il vettore, la zanzara anofele. La malaria, e, in altre zone del mondo, la tubercolosi hanno effetti diretti e indiretti sulle popolazioni. Non mi riferisco solo alle morti precoci, soprattutto dei bimbi sotto i cinque anni, ma al lascito genetico, alla riduzione delle popolazioni, con riduzione della ricchezza prodotta e fuga dai territori colpiti. Il progetto per debellare la malaria sarda, a fine anni Cinquanta, pur controverso, eliminò quasi totalmente il vettore ed eradicò la malattia. L’intervento su un’isola fu da modello rispetto ad altri interventi successivi. Vorrei solo ricordare che la malaria ancora nel Novecento lasciava come eredità ai sardi duemila morti diretti l’anno».
Per la Sardegna quello fu un momento di svolta?
«Sì. Partiamo dall’assioma che la salute è parte del capitale umano. Avere debellato la malaria allora ci consentì di far crescere veramente l’isola. L’aumento della produttività non fu casuale. Viceversa l’impoverimento delle aree oggi colpite da malaria o tubercolosi, produce effetti secondari rispetto alle morti e alla bassa qualità della vita ma comunque importanti e quantificabili. Aree abbandonate, crisi dell’agricoltura, sono fattori dovuti alle malattie che si riverberano direttamente sull’economia, con bassi o nulli investimenti oggi e soprattutto nel futuro».
Come si combattono oggi le malattie infettive endemiche?
«In vari modi. L’intervento farmacologico, pur fondamentale, non basta. Dobbiamo incoraggiare comportamenti virtuosi che riducono probabilità di contagio, aiutando le popolazioni colpite dalla malattie. Ad esempio, le organizzazioni internazionali avevano puntato molto sulle zanzariere da letto in Estremo Oriente, salvo poi scoprire che queste venivano usate come reti per pescare. Dobbiamo incoraggiare le persone a farsi testare e poi a iniziare un trattamento anche vaccinale. L’aspetto curioso è che di queste malattie si conosce tutto, non da oggi ma da decenni, ma dobbiamo ancora confrontarci con 1,3 milioni di morti di tubercolosi e 600mila di malaria ogni anno. In Asia queste malattie sono ancora uno stigma. La gente ha paura di fare i test perché a risultato positivo viene isolata, perdendo lavoro e famiglia. Queste sono vere malattie della povertà».
Costi alti per le vaccinazioni, visto che non si può certo irrorare interi continenti di DDT?
«Alti ma non insostenibili. Il fatto che sia difficile farlo è testimoniato dalla presenza delle Fondazioni private, oggi con la Bill&Melissa Gates Foundation in prima fila, allora con la Fondazione Rockefeller per la Sardegna. Le difficoltà oggi sono solo politiche, non a caso l’Organizzazione mondiale della sanità non ha trovato una intesa al suo interno per condividere tra i paesi dati su varianti dei virus in tempo reale».
Cosa è successo?
«Le ultime varianti covid sono arrivate dall’Africa o da paesi in via di sviluppo. Questi hanno fornito quasi in tempo reale le informazioni sui ceppi consentendo di produrre vaccini adeguati. Adesso questi stessi paesi chiedono che allo scambio di informazioni tra poveri e ricchi segua lo scambio di vaccini tra ricchi e poveri. Il dialogo non può avvenire tra case farmaceutiche e governi dei paesi più poveri, ma tra governi del primo e del terzo mondo. Spero che un accordo si trovi con forme di compensazioni sui costi dei vaccini».
Per finire, su cosa sta lavorando adesso?
«Sto collaborando con le Nazioni Unite per un progetto in Pakistan che convinca le persone a fare i test sulla tubercolosi, senza correre il rischio di venir isolati dalle comunità. La risposta è coinvolgere i membri più autorevoli delle comunità all’utilità dei test. C’è evidenza scientifica che questo tipo di comunicazioni è più credibile. Le reti sociali funzionano. L’altro progetto riguarda anche la Sardegna e attiene ai fattori che influenzano la fiducia nei sistemi sanitari occidentali, con uno sguardo anche agli Usa. C’è un rapporto diretto tra fiducia nel sistema e propensione a ricevere le cure dai medici, La fiducia nel sistema è importante tanto quanto reddito e istruzione».
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