La Nuova Sardegna

L'intervista

Basket, il buen retiro di Meo Sacchetti: «Senza squadra, ma non pensionato»

di Andrea Sini
Basket, il buen retiro di Meo Sacchetti: «Senza squadra, ma non pensionato»

Il coach nella sua casa nelle campagna di Alghero fra gli olivi e le storie di una vita

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inviato ad Alghero Gli ulivi li ha spollonati pochi giorni fa. Per la raccolta delle olive è ancora presto, ma nel frattempo c’è da tenere in ordine il resto del terreno, respingere gli assalti notturni dei cinghiali e mettere insieme gli sfalci, in attesa che sia possibile bruciare le sterpaglie. Il canestro, piazzato in un angolo proprio in fondo, in questa campagna a pochi chilometri da Alghero, non vede una palla da mesi. E di certo non l’ha usato il padrone di casa. Il quale, a dispetto dei trascorsi, non fa un tiro a canestro da una vita.

Il padrone di casa si chiama Meo Sacchetti, 71 anni, professione allenatore di basket, attualmente libero. «Ma non pensionato – si affretta a dire l’ex coach della Dinamo –. Mi considero in vacanza, sono senza squadra e mi sto gustando la Sardegna come forse non mi era mai capitato sinora. Ho trascorso qua tutta l’estate e non mi era ancora successo, perché da quando ho preso casa a Valverde non me la sono goduta come avrei voluto».

Dieci anni fa, proprio in questi giorni, iniziava la stagione che avrebbe portato lei e la sua Dinamo allo scudetto e a uno straordinario triplete. Che effetto le fa?

«Più il tempo passa, più la vedo come una bella favola. Nessuno avrebbe mai pensato di arrivare sin lì. Ma se ci siamo arrivati è perché era stato iniziato un percorso, all’interno del quale a un certo punto siamo cresciuti in maniera inaspettata. Se abbiamo vinto il Triplete è anche perché l’anno prima avevamo fatto qualcosa di importante, vincendo la prima Coppa Italia, e prima ancora eravamo riusciti a conquistare la massima serie vincendo i playoff della Legadue».

Le hanno sempre rinfacciato di essere un coach fortunato.

«A volte la fortuna ti aiuta, altre volte no. Tu devi essere bravo a prendere ciò che la sorte ti dà, devi essere lì ed essere pronto a meritartelo. Quell’anno la Supercoppa a inizio stagione ci diede fiducia, poi ci furono la Coppa Italia e i playoff. Si diceva che in gara secca avremmo potuto battere chiunque, ma in una serie no».

Invece?

«Siamo partiti quinti nella griglia playoff e ci sono state tante partite rocambolesche. Penso a gara 7 a Milano, a molte partite della serie con Reggio».

In gara7 accadde l’episodio di Sosa colpito da un tifoso. Lei a quel punto mise dentro un quintetto tutto americano e anche “all black”.

«Avevano toccato un fratello. Sapevo come avrebbero reagito».

Previsione giusta. Sente ancora i suoi ragazzi di quegli anni?

«Con Shane Lawal ogni tanto ci scriviamo, idem con i Diener. Recentemente alla festa di Pinuccio Mele ho rivisto tutti insieme Jack Devecchi, Manuel Vanuzzo e Massimino Chessa, oltre a mio figlio Brian. Una volta abbiamo fatto una grigliata qua da me e si sono scolati tutto il mio mirto...».

Il boccone amaro dell’esonero le è andato giù?

«Un esonero non è mai una cosa piacevole, soprattutto dopo tanti anni in cui sei in un posto. Ma l’ambiente dello sport è così. È stata una botta importante per il mio essere, poi con gli anni ho imparato a tenere vive le cose buone di ogni esperienza. Certo, a volte è facile, altre volte molto meno».

Ha seguito il mercato estivo del basket?

«Il giusto. Leggo, ora inizio a guardare qualche partita. Ho visto che la Dinamo ha cambiato molto, ma anche altri si sono mossi bene. Diciamo che in estate ho guardato tanto le olimpiadi».

Cosa le è piaciuto?

«Mi hanno impressionato gli azzurri della pallavolo, sia i ragazzi che le ragazze. Per quanto mi riguarda è uno sport che ha guadagnato molti punti».

E il basket? A Tokyo l’Italia c’era e la guidava lei. Stavolta l’Italia non c’era.

«Onestamente non ho guardato il basket».

Altre cose che l’hanno colpita?

«La gara di Nadia Battocletti è stata straordinaria. Mi è dispiaciuto molto per Tamberi. In generale, l’atletica è sempre uno spettacolo. Poi guardando le Paralimpiadi sono rimasto impressionato dal brasiliano senza braccia che ha vinto i 100 dorso. Veramente straordinario».

Lei ha partecipato ai Giochi come atleta e poi come allenatore. Cosa è meglio?

«Non c’è paragone: scendere in campo come giocatore non ha eguali, non esiste niente di più né di meglio».

Forse vincere una medaglia. A Tokyo l’avete sfiorata.

«Ci siamo andati vicini, abbiamo perso ai quarti di finale da “underdog”. Non bisogna avere rimpianti. Tutto era nato già prima di quella grande vittoria a Belgrado: ai Giochi abbiamo sofferto in qualche partita, poi c’è stata l’esplosione di Fontecchio, Mannion e altri; Melli è stato un grande capitano e avevamo un grande gruppo, panchina compresa. Io dico che non dobbiamo avere rimpianti».

Sicuro che non si considera in pensione?

«Sì, certo. Ogni tanto sento il mio agente. Ma ora sono impegnato con la campagna, tra un po’ ci sarà da fare l’olio e vedremo quanto ne verrà fuori. Tra un mese capiremo».

L’olio o il basket?

«Allenare non è un assillo. Gli ultimi anni non sono stati facili. Se arriverà una proposta intrigante la valuterò, ma non ho pensieri. Ho anche dei nipotini, eh. E i cinghiali...».

Non le viene mai la voglia di tirare a canestro?

«Mai, non faccio un tiro da tanti anni. Ho fatto un po’ lo stupido a Tokyo con i ragazzi, ma in generale da quando ho smesso preferisco guardare gli altri tirare».

Se la Dinamo la invitasse a vedere una partita al palazzetto, accetterebbe?


«Sì certo, perché no? ».

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