La Nuova Sardegna

La preoccupazione

Dazi Usa, la Sardegna rischia grosso: Sassari e Nuoro le più colpite

di Claudio Zoccheddu
Dazi Usa, la Sardegna rischia grosso: Sassari e Nuoro le più colpite

Il lattiero-caseario proietta le due province in vetta a quelle più esposte. Pinna, Thiesi: «Un’imposizione del 25% ci costerebbe 40 milioni»

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Sassari Il gusto è quello stantio degli alimenti scaduti. Nonostante la questione sembri una copia a carbone di quanto accaduto nel 2019, non è certo il caso di sottovalutare le ultime dichiarazioni del presidente Usa Donald Trump, al netto del senso di deja vu che possono provocare. Perché l’idea di dazi che The Donald ha annunciato di voler ripristinare mette a rischio anche l’economia dell’isola. Le province italiane più colpite dalla misura trumpiana, infatti, sarebbero Sassari e Nuoro.

L’indagine

Prometeia, istituto che offre servizi di analisi alle imprese e agli intermediari finanziari, ha ipotizzato due scenari: l’aumento di 10 punti percentuali delle tariffe sui prodotti già daziati e un aumento generalizzato di 10 punti su tutti i prodotti diretti negli Stati Uniti. “In entrambi gli scenari - si legge nell’indagine - la provincia di Sassari risulterebbe il territorio più esposto per via di esportazioni di prodotti lattiero-casearie destinate agli Stati Uniti che rappresentano oltre il 30% dell’export provinciale. Oltre a Sassari nella top 5, anche in questo caso in entrambi gli scenari e per lo stesso motivo, c’è anche Nuoro. Dunque, l’allerta è destinata a rimanere alta perlomeno fino ad aprile, quando Trump dovrebbe passare dal dire al fare.

I produttori

«Attendiamo di capire cosa accadrà – spiega Andrea Pinna, amministratore delegato dell’azienda “Pinna Formaggi” di Thiesi – anche se devo dire che la sfuriata di Trump nel 2019, quando aveva previsto dazi al 25% sul latte, alla fine ci saltò e colpì solo l’export dei prodotti vaccini. Nonostante gli annunci, alla fine non venne applicato alcun dazio al codice doganale in cui rientra il Pecorino Romano». All’epoca, a bloccare le intenzioni di Trump fu una protesta “interna”: «L’associazione degli importatori fece cambiare idea al presidente – ricorda Pinna–. Negli Usa non esiste una produzione di latte ovino e i dazi avrebbero pesato perlopiù sul sistema degli importatori, che avrebbero dovuto ridurre la forza lavoro e, infine, sui consumatori, che avrebbero dovuto pagare un prezzo finale più alto». Il dazio, in sostanza, si sarebbe rivoltato sull’economia americana. Dunque, nulla di fatto: «Decisero di non applicarlo sui formaggi di pecora stagionati ma solo sui grattugiati mentre aggiunsero una quota del 25% sui vaccini, già gravati di un dazio del 15%». D’altra parte, la produzione di latte vaccino negli Usa si concentra negli allevamenti del Wisconsin e nel cosiddetto “Midwest”, il più grande bacino elettorale di Trump. Lo spavento iniziale, cronologicamente legato alle difficoltà del 2019, quando crollò il prezzo del latte e dilagò la protesta dei pastori, divenne un clamoroso assist involontario per il mercato del Pecorino Romano: «Senza il peso dei dazi doganali, il consumo del Romano crebbe e fece salire il prezzo del latte prima a 80, 90 centesimi al litro fino all’euro e 60 che si paga oggi. Se i prezzi del latte ovino sono triplicati – aggiunge Andrea Pinna – lo si deve principalmente al Romano che assorbe il 70% del latte trasformato. Su 300 milioni di litri di latte, oltre 240 sono per il Romano». Il futuro prossimo del Romano, dunque, potrebbe non essere così complicato: «Senza i dazi, i prezzi e consumi potrebbero anche aumentare. Con il Dollaro forte rispetto all’Euro, con consumi buoni sia nazionali sia internazionali, il Romano sarebbe una garanzia anche con un dazio del 10%. Se invece l’imposizione tariffaria fosse al 25%, come ha annunciato Trump, potremmo perdere il 15, 20% del mercato, cioè 40 milioni di euro. Inoltre – conclude Pinna – il latte che non potrebbe essere trasformato innescherebbe il meccanismo che porta inevitabilmente al calo del prezzo al litro».

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