La Nuova Sardegna

Il caso

Trattamenti «inumani e degradanti»: lo Stato italiano condannato per il calvario di Simone Niort

di Luca Fiori
Trattamenti «inumani e degradanti»: lo Stato italiano condannato per il calvario di Simone Niort

Il detenuto sassarese in nove anni ha tentato di togliersi la vita più di venti volte e si è inferto almeno 300 lesioni: ora secondo la corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo dovrà essere risarcito

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Sassari In nove anni di carcere ha tentato più di venti volte di togliersi la vita, si è inferto lesioni per almeno 300 volte e ha subito più di cento procedimenti disciplinari nei vari istituti penitenziari dell’isola e della penisola in cui è stato rinchiuso per scontare un cumulo di dieci anni di condanne.

La storia

Quello di Simone Niort, detenuto sassarese di 28 anni, dietro le sbarre da quando ne aveva 19 e ritenuto - già dal 2019 - incompatibile con la condizione detentiva per via dei suoi problemi psichiatrici, è un calvario interminabile, ma dopo tanti anni di battaglie la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo gli ha dato ragione e ha condannato lo Stato italiano.

I giudici di Strasburgo hanno accertato che il 28enne sassarese, detenuto dal 2017 in varie carceri italiane, ha subito trattamenti “inumani e degradanti”, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Nella sentenza in francese depositata ieri 27 marzo - in cui ha condannato lo Stato Italiano a risarcire Simone Niort - la Corte ha rilevato la mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti, nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici.

Gravi condizioni: cosa è successo

«In particolare, oltre a riconoscere la vulnerabilità di Simone Niort - spiegano i suoi difensori l’avvocato Marco Palmieri del foro di Sassari insieme agli avvocati Antonella Mascia e Antonella Calcaterra - la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano dimostrato di aver valutato in modo sufficientemente rigoroso la compatibilità del suo stato di salute con la detenzione». La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento di Niort in una struttura penitenziaria più adatta alle sue gravi condizioni. Infine, la Corte ha riscontrato la violazione dell’articolo 38 del regolamento della Corte per il mancato rispetto dell’obbligo, da parte dello Stato italiano, di fornire tutte le informazioni necessarie e richieste espressamente per accertare i fatti della causa.

«Simone Niort dovrebbe uscire dal carcere nel 2026 – spiega i suoi difensori – ma già dal 2019, un consulente tecnico nominato d’ufficio, lo psichiatra Pasquale Tribisonna, aveva accertato - nell’istituto penitenziario di Nuoro - che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in cella, dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”».

Dopo vari trasferimenti il suo difensore, insieme agli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e al docente di diritto pubblico dell’Università Statale di Milano Davide Galliani, si erano rivolti ai giudici di Strasburgo. Dopo innumerevoli tentativi di suicidio, automutilazioni e sanzioni disciplinari, nel 2020 l’Ufficio di Sorveglianza aveva ordinato un periodo di osservazione psichiatrica, come prevede l’ordinamento penitenziario per verificare se la condizione di Simone fosse compatibile con il carcere. I presupposti c’erano tutti, anche perché, nel 2019, in un procedimento penale, c’era già stata la consulenza fatta a Nuoro che sconsigliava la detenzione.

Le richieste per una cura

«Simone dovrebbe essere curato – aggiunge l’avvocato Palmieri – e affidato a una struttura sanitaria». Ma l’osservazione psichiatrica ultimata nel 2021 era rimasta riservata: né Simone né il suo difensore avevano avuto copia della documentazione. L’Ufficio di Sorveglianza dell’epoca invece era riuscita a leggerla e nel novembre 2022 aveva indicato che Simone Niort aveva un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo. Ciò nonostante, non solo non aveva deciso di trovare una sistemazione al di fuori del carcere, ma aveva ordinato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di individuare un istituto penitenziario idoneo a ospitare Simone e il suo bagaglio di sofferenza e disagio psichico. La richiesta era stata reiterata nel 2023, ma la risposta non era mai arrivata. Il motivo è semplice, la richiesta era stata rivolta all’amministrazione non competente. La Sorveglianza avrebbe dovuto chiedere non al Dap, ma all’autorità amministrativa sanitaria competente di identificare un percorso di cura alternativo al carcere.

La sentenza di condanna

«Forse a causa della carenza strutturale di luoghi di cura in Sardegna per persone come Simone – spiega l’avvocata Antonella Mascia – forse per paura, la scelta è stata una non scelta o una scelta obbligata. Nel mentre il calvario era proseguito con tentativi di suicidio, ferite, i tagli, ingestioni di oggetti. Simone – prosegue l’avvocata Mascia – per anni è finito regolarmente in una cella “liscia” o di “transito” perché non fare del male a sé e agli altri. È rimasto isolato, non ha svolto attività educativa. Ma ai giudici di Strasburgo – si rammaricano i legali – il Governo non aveva trasmesso l’osservazione psichiatrica del 2021 da cui dovrebbe risultare che Simone è incompatibile con il carcere. E non era stata neppure presentata una relazione attestante la reale condizione di Simone, come avevano richiesto i giudici di Strasburgo». Nonostante questo è arrivata la sentenza di condanna per lo Stato Italiano che ora oltre a dover risarcire il detenuto sassarese dovrà trovare per lui una sistemazione diversa dal carcere.

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