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Quel giorno in cui Brera lo soprannominò Rombo di Tuono

di Piero Mannironi
Quel giorno in cui Brera lo soprannominò Rombo di Tuono

La stima e l’affetto del giornalista che come pochi aveva capito la solitudine e gli intimi tormenti del “Brenno di Leggiuno”

05 novembre 2014
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di Piero Mannironi

Quando il primo febbraio del 1976 Gigi Riva si "ruppe" per la terza volta Gianni Brera reagì evocando Garcia Lorca: ". Que no me dejas verlo" (Non fatemi vedere). Erano le parole che il poeta spagnolo aveva detto quando il suo amico Ignacio Sánchez Mejías era riverso, agonizzante, nell'arena. Dolore sincero, quello di Brera. Lui, giornalista immaginifico e colto, che amava il calcio fatto di impeto e di coraggio, stimava Riva. Anzi, per lui era un eroe. L’aveva paragonato perfino al re barbaro Brenno che non si era fermato davanti alle mura di Roma. In quel febbraio, del ’76 nel quale si concluse la carriera di Riva, Gianni Brera usò parole sincere e dolenti: «La notizia del grave infortunio mi è discesa nell'anima come un'amara colata di assenzio».

Per Brera Gigi Riva da Leggiuno, gladiatore degli stadi, incarnava il mito dell'impavido Davide sardo che si batteva contro i Golia del calcio. L'uomo della provvidenza e del riscatto per un'isola prigioniera delle catene del pregiudizio. Il suo giornalismo fatto di folgoranti immagini e di crudeli nomignoli aveva bollato il calcio “apallico” di Rivera e di Bulgarelli come il gioco degli abatini, il «gioco gentile dei pavidi». La ferocia soave delle sue parole poteva diventare una mannaia perché lui, nel calcio, al fioretto preferiva la scure, alla leziosità degli abatini la «furia belluina del Brenno di Leggiuno», il barbaro generoso e coraggioso fino alla temerarietà.

Pochi come Brera avevano capito l’animo profondo di Riva, la sua solitudine e i suoi intimi tormenti. Ecco cosa scrisse del suo eroe «erede del divino Piola»: «Le frustrazioni subite nell'infanzia gli impedivano ogni forma di prepotenza morale. Nessuno più di lui era disposto a capire gli umili. Pensandoci bene, la sua fuga in Sardegna era improrogabile voglia di riscatto, direi di evasione nel sacrificio, e quindi fatalmente nel dolore».

Ma a Gianni Brera si deve soprattutto l’invenzione di quel nomignolo quasi epico per quel ragazzo lombardo che volle farsi sardo: Rombo di Tuono. Lo coniò il 25 ottobre del 1970. Il Cagliari campione d'Italia vinse a San Siro con l'Inter 1-3. Sul Guerin Sportivo Gianni Brera scrisse: «Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l'Inter a San Siro. Oltre 70mila spettatori: se li è meritati Riva, che qui sopranomino Rombo di Tuono».

Ma quel soprannome Brera l’aveva in testa da tempo. Soprattutto dopo essere stato all’Amsicora, lo stadio intitolato al Vercingetorige dei sardi. L'Amsicora era il piccolo Colosseo dove i moderni gladiatori del Cagliari combattevano le loro battaglie sportive, che per la Sardegna erano anche battaglie d'orgoglio. Era l'arena nella quale Riva era come uno sciamano che creava e dirigeva un rito collettivo. Quando il pallone arrivava dalle sue parti, calava il silenzio. Improvvisamente. Un silenzio assoluto e impossibile: era l'attesa dell'evento. E Riva partiva. Come un treno, come un'onda in piena. L'aria cominciava piano piano a vibrare: prima un brivido, poi un sussurro, poi un brusio che cresceva con l'incedere potente e dirompente del gladiatore con la maglia numero 11. Fino a diventare un ruggito, un boato, quasi un tuono che metteva i brividi ed era capace di scuoterti le budella. E Riva pareva volare su quel fragore che sembrava un'onda violenta. Eccolo, era il Rombo di Tuono.

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