La Nuova Sardegna

Edgar Morin: «Quel varco aperto dai movimenti è una lezione ancora attuale»

di Giacomo Mameli
Edgar Morin: «Quel varco aperto dai movimenti è una lezione ancora attuale»

Il sociologo francese parla del suo nuovo libro “Maggio ’68. La Breccia» Analisi di un fenomeno complesso in cui convivono aspetti positivi e negativi

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Con i suoi 96 anni portati bene, Edgar Morin (nato a Parigi l’8 luglio 1921), continua a sorprendere e soprattutto a interessare. Fra gli ospiti eccellenti del Lingotto di Torino, ha registrato il tutto esaurito . Ha riproposto la sua radiografia sociale del ’68. Ha aggiornato il file senza revisionismi, ha messo in risalto luci e ombre, sancendo che in «quel decennio è emersa per la prima volta la generazione degli adolescenti con la sua identità e i suoi codici». Con il Maggio francese i giovani «sono diventati protagonisti», hanno proposto «una visione rigenerata dell’umanesimo». Stessi concetti codificati nel libro “Maggio 68, la Breccia” (appena pubblicato da Raffaello Cortina Editore).

Spartiacque.

Comunque si guardino quei fatti, lo spartiacque c’è stato. Ripete che «la complessità umana va capita e studiata». È una tac rigorosa di quanto avvenne mezzo secolo fa. Prima di quelle «rivolte» le acque erano chete, la società immobile, «la nave di quella società pareva solidissima, invece scoppiò una rivolta generazionale». Morin ricorda il movimento studentesco di Berkeley in California nel 1964. Già allora si stava formando «una classe d’età adolescente, dotata di una propria autonomia, tra il bozzolo dell’infanzia e l’integrazione nel mondo adulto. Una classe d’età con le sue uniformi, le sue parole d’ordine, la sua musica, i suoi riti». Arriva il 1968. Morin rimane colpito dalle rivolte che esplodono non solo negli States ma anche in Egitto, Polonia, nei Paesi occidentali. Scatta «il carattere internazionale delle proteste studentesche, succede in sistemi politici e sociali differenti come i regimi socialisti, la dittatura egiziana» con un denominatore comune: «Quei giovani prendevano di mira l’autorità». Un avamposto sono gli atenei. «L’esplosione del maggio era servita come amplificatore, acceleratore di una riforma modernista che abolirà la vecchia feudalità universitaria. Una riforma non solo tecnocratica ma anche democratizzante attraverso l’ampliamento dell’accesso agli studi e l’abolizione di ogni diritto divino professorale».

Aule ribollenti.

«Il detonatore rivoluzionario della comune studentesca aveva accelerato la riforma ma anche lo sviluppo di una contestazione di fondo». Parla sottovoce, in un italiano comprensibile. «Ricordo la prima di quelle giornate, il clima di festa, libertà, originalità. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria che contagiò tutti, operai, borghesi, intellettuali. Finì con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista.

Estasi storica.

Ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va più dallo psicanalista». E poi «si vide la possibilità di migliorare l’umanità, con un cambiamento straordinario, come se quel ’68 sia stato l’avventura della vita, del cosmo». Cita Eraclito: «Tutto deriva dalla combinazione di concordia e discordia. Bisogna vedere tutto, vedere anche, accanto all’invenzione di formule, il ritorno del politichese. Nel ’68 ci sono stati, contemporaneamente, genialità e cretinismo». Morin fa l’educatore: «Le esperienze retroagiscono sui grandi eventi del passato e modificano la nostra visione che la nostra non è eterna e assoluta, numerosi eventi futuri la modificheranno. Dobbiamo essere pronti a rivedere la nostra revisione. Guardando al ’68, così come George Lefebvre fece per la Rivoluzione francese, non dimentichiamo mai di preservarne la complessità».Morin (il suo vero nome è Edgard Nahoum), nel 1936 ha 15 anni. Si esalta per la vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, combatte nella Resistenza, contesta la guerra d’Algeria). Poi il ’68, convinto che quella breccia non si è chiusa. «C’è stato, in quel movimento, il tentativo di un cambiamento antropologico prima ancora che politico, il desiderio di costruire un mondo migliore, e il sogno sembrava a portata di mano». Nostalgico?

Momenti speciali.

«Nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del maggio. Il Super-Io dello Stato e della società erano paralizzati. Erano momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89». E le primavere arabe? «A differenza dei momenti storici citati, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario». Parla di attualità: «Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito a ricomporre un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».

Ricordi dell’isola.

Alla fine dell’incontro Morin è stretto d’assedio. Come un sociologo-filosofo che frequenta ancora il Salone di Torino o la Buchmesse di Francoforte vive la vecchiaia? «È il bel ricordo dell’infanzia e della giovinezza. Ma sono belli anche gli anni che sto vivendo». È mai stato in Sardegna? «Sì, la prima volta negli anni Sessanta. Un gruppo di sociologhe del Cris – Centro ricerche industriali e sociali Torino, guidato da Magda Talamo, stava indagando sulla fine del sogno minerario. Ricordo i contatti con un ex sindaco, Piero Doneddu. Avevo girato l’isola, ero stato a Orgosolo in rivolta per i fatti di Pratobello, dove il ministero della Difesa d’accordo con il governo voleva costruire un poligono militare. Poi ci sono tornato negli anni Ottanta, ma avevo notato una eccessiva presenza turistica. Quasi non ci si poteva godere la bellezza del mare e delle campagne, delle città, dei piccoli paesi; avevo visitato Santulussurgiu e il pozzo sacro di Santa Cristina a Paulilatino. È bella la Sardegna. Ci vorrei tornare».

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