La Nuova Sardegna

Angioy, il ribelle che voleva la felicità dei sardi

di FRANCISCU SEDDA
Angioy, il ribelle che voleva la felicità dei sardi

Da venerdì 6 col giornale il volume di Omar Onnis sulla vita del protagonista della rivolta antifeudale in Sardegna 

06 dicembre 2019
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Chi fu Giovanni Maria Angioy? «Virtuosissimo eroe» o «uomo che più nullo non esiste», come disse nel giro di pochi anni Matteo Luigi Simon? Machiavellica mente dietro l’ «emozione popolare» del 28 aprile 1794, l’uccisione di Pitzolo e Paliaccio, la sollevazione repubblicana e antifeudale di metà Sardegna, come sostennero in presa diretta i suoi avversari politici, o uomo ingenuo, magistrato incapace di pensiero strategico, borghese timoroso di una guerra civile, leader casuale e impreparato a guidare una rivoluzione, tanto da dover riparare in esilio senza neanche aver mosso veramente guerra alla sovranità sabauda e ai suoi zelanti servitori sardi?

Leale Alternos del potere regio, tanto da chiedere di inneggiare al re anche mentre “marciava” verso Cagliari, o punta avanzata delle idee repubblicane, tanto da coltivare contatti segreti con i rappresentanti della Francia e circondarsi dei più ferventi giacobini sardi? Per destreggiarsi in queste contraddizioni bisogna calarsi nella storia sarda ed europea di quel tempo fatto di dissimulazione e rivoluzione. Perché la storia di Angioy è specchio, parziale ma nondimeno potente, di più ampie vicende. Come lui stesso scriveva il 12 giugno 1796, prima di partire per l’esilio, intrecciando destino individuale e collettivo: “Non ho più tempo, solo per piangere la mia disgrazia e quella della mia Patria”.

Dissimulazione. Perché il Settecento è secolo dei Lumi a livello intellettuale ma politicamente è ancora figlio dell’assolutismo monarchico e parlare apertamente contro il potere sovrano significa rischiare la vita. Da qui il proliferare di comunicazioni anonime fatte di fogli, pamphlet, lamentele, calunnie che nutre congiure vere o presunte, ordite da sudditi stanchi e oppressi o paventate da potenti che agitano il popolo per proprio tornaconto. Situazione che tanto ricorda le dinamiche dell’odierna rete in cui avatar, voci, complotti, amicizie, alleanze, posizioni s’inseguono, mescolano, ribaltano vorticosamente.

Rivoluzione. Perché alla fine qualcosa d’inedito, fra Stati Uniti e Francia, accade e scuote il mondo. Ma essendo inedito lo fa senza una chiara rotta, con le sue figure guida che navigano a vista. E paiono trascinate dagli eventi – che spesso finiscono per inghiottirli – più di quanto non li governino. Gli americani iniziano con una protesta sui dazi doganali e la finiscono indipendenti. I francesi partono affamati e desiderosi di riformare le istituzioni e la finiscono tagliando la testa al re, poi col Terrore, infine con un imperatore.

Imprevedibilità, casualità, ambiguità. Non deve stupire o scandalizzare la sensibilità odierna se le vicende di Angioy e della Sardegna del tempo appaiono fluide e confuse. Tanto più che proprio la nostra terra si trova prima di altre catapultata nel cuore del tempo nuovo. Si rifletta su questi “trienni rivoluzionari”: Francia 1789 -1792, Sardegna 1793 - 1796, Italia 1796 -1799, Irlanda 1799 -1802. La Sardegna è precoce. Nel bene e nel male.

Chi fu dunque Angioy? Certamente fu un bambino, nato a Bono il 21 ottobre 1751, presto orfano dei genitori; fu una mente acutissima se non geniale, tanto da ottenere a 22 anni la cattedra di Istituzioni civili e a 30 occupare le più alte cariche della magistratura; fu un borghese coraggioso, ammirato per la sua intraprendenza e capacità negli affari; fu un giudice della Reale Udienza del Regno di Sardegna che nel momento della tentata invasione da parte della Francia appoggiò timidamente la resistenza anti-francese e si mostrò magnanimo con i sostenitori delle idee rivoluzionarie; fu figura appartata negli eventi del 28 aprile 1794 mentre dopo divenne leader del “partito patriottico”, o “democratico”, che durante la Sarda Rivoluzione tiene in pugno il Parlamento sardo; fu “novatore” circondato da amici giacobini che col tempo ostentavano sempre più apertamente la loro fede cantando canzoni rivoluzionarie, indossando la coccarda rosso-bianco-blu mentre inneggiavano all’abbattimento del feudalesimo, alla Nazione sarda e alla Repubblica di Sardegna; fu Alternos del viceré, inviato nel Capo di Sopra per fermare la secessione controrivoluzionaria ma ancor più per allontanarlo strategicamente da Cagliari; fu accolto come un salvatore a Sassari e infuse speranza nei paesi del Logudoro attraverso i patti civici confederativi che di fatto abolivano il feudalesimo; fu colui che condusse un’ambigua marcia su Cagliari, iniziata senza portare con sé i suoi più valorosi generali rivoluzionari, come Gioachino Mundula e Francesco Cilocco, e finita a Tramatza si dice in lacrime e convinto d’essere stato tradito da tutti; fu colui che nell’esilio, in particolare fra 1798 e 1801, perorò davanti a Napoleone l’esigenza d’invadere la Sardegna per “rompere le catene della tirannia” e farne una repubblica indipendente, una Nazione sarda eternamente riconoscente alla Nazione francese; fu via via esule sempre più solo, povero, malato, fino alla morte il 22 febbraio 1808.

Tutto ciò può apparire poco per chi cercasse storie lineari, chiare, compiute. Ma vale la pena considerare che ancora negli anni Sessanta del Novecento Angioy era considerato nientemeno che come un precursore del Risorgimento italiano. Precursore certo strambo e periferico ma pur sempre come patriota e repubblicano italiano fu celebrato nel 1896, nel centenario del suo ingresso a Sassari, e oltre. Ecco, se c’è una cosa certa oggi è che fu molte cose ma non questa. Angioy non fu italiano: non si sentì né si credette né agi come tale. Nelle sue azioni, per quanto contraddittorie, c’era infatti un riferimento fisso: la felicità e il bene della Sardegna, di volta in volta definita Patria, Nazione, Paese, sempre in maiuscolo. Una Sardegna pensata al pari della Francia e delle altre nazioni dell’epoca. Se tutto ciò è stato per lungo dimenticato, e ancor oggi può apparire sconveniente dirlo, lo si deve alle figlie che ne ripudiarono il nome e lasciarono che la cassa con i suoi scritti andasse persa, alla controrivoluzione che uccise corpi e memorie, alla Perfetta Fusione e all’Unità d’Italia che repressero ulteriormente la coscienza di nazione dei sardi. E a tanti altri traumi, spesso autoimposti, di cui siamo figli.

È proprio vero Giuanne Maria, quando “non si ha tempo”, quando si perde la memoria e il suo senso, non resta che piangere per le disgrazie proprie e della propria Patria. Ma se la memoria torna…

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