«I miei personaggi in fuga sulla Route 66 quando uccisero Jfk»
di Angiola Bellu
Lo scrittore americano parla del romanzo “November road” ambientato negli Stati Uniti dei primi anni Sessanta
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MILANO. L’incontro casuale tra due persone in fuga in auto verso ovest: in libreria, “November road” (HarperCollins, 347pp, 18 euro), l’ultimo appassionante thriller dello statunitense Lou Berney, racconta l’America ai tempi dell’assassinio del presidente Kennedy. Sullo sfondo c’è un Paese che vede andare in frantumi i propri sogni, spazzati via dai proiettili di Dallas. Frank è un gangster fedele a un clan di New Orlean, ma sa troppo su quel tremendo omicidio e deve scappare se non vuole morire. Charlotte è in fuga dalla sua vita, compressa dal rapporto con il marito alcolizzato e dal piccolo paese dell’Oklahoma privo di ogni prospettiva. Scappa per dare a se stessa e alle sue due bambine la possibilità di una vita diversa. Leggendo “November road” ci immergiamo nel fascino senza tempo delle avventure “sulla strada” della miglior letteratura a stelle e strisce, che non smette di farci sognare e tremare perché una strada non è mai solo una strada. Lou Berney, a Milano per promuovere il romanzo, svela l’anima del suo romanzo che si snoda sulla Route 66 dei paesaggi sterminati, dei motel e delle stazioni di servizio.
Il libro inizia con la morte di JFK, tema che prima o poi ogni grande scrittore americano deve affrontare. Perché?
«Per me, cresciuto molto vicino a Dallas in una famiglia cattolica, Kennedy è stato molto importante. Mia nonna, nel soggiorno aveva due quadri: uno della Vergine Maria e uno di JFK. Mia mamma, grande affabulatrice, mi raccontava che sono stato concepito la notte in cui kennedy è stato ucciso. Così, vero o no, Kennedy è sempre stato parte della mitologia familiare».
“November road” è un romanzo incredibilmente compatto per una trama così densa. Un altro scrittore ne avrebbe fatto un volume di 700 pagine. Come è riuscito a rendere il romanzo così profondo e snello?
«Questo è un complimento enorme per me, perché la mia intenzione principale è stata quella di essere breve e profondo. Ho tagliato tantissimo durante la stesura, volevo essere essenziale, volevo che il lettore avesse un’esperienza di lettura veloce e intensa. I dialoghi sono un altro punto forte del romanzo, riflettono perfettamente la cultura del tempo».
Siamo agli inizi degli anni Sessanta. Che lavoro ha fatto sui dialoghi dei personaggi?
«Per me i dialoghi sono la parte più importante del romanzo, attraverso il dialogo entro in connessione con i personaggi. Devo prima sentire le loro voci nella mia testa per capire le loro personalità».
È un libro che ha tanti piani di lettura, il principale è la fuga di due persone agli antipodi – una “normale' in provincia, e l’altra criminale in una grande città – Come è riuscito a metterle in relazione?
«Volevo far interagire due persone appartenenti a mondi completante diversi. Come scrittore non ero sicuro che potesse accadere: non è comune che questi due mondi si incontrino e si scontrino».
Come è riuscito a restituire le relazioni uomo\donna e nero\bianco, prima della grande rivoluzione culturale?
«In America la maggior parte della gente percepisce il tempo che passa attraverso la narrazione televisiva e, secondo questa, gli anni Cinquanta erano molto prosperosi e felici, ma non è la verità. Grandi cose stavano per succedere ma, sino ad allora, se eri donna, nero, povero, dovevi stare zitto e tranquillo. Volevo che il mio libro rappresentasse in maniera più autentica quelle che erano le istanze del periodo, Franck Guildry è dall’inizio l'emblema della sopravvivenza ma a un certo punto inciampa sul suo sconosciuto lato affettivo».
Che tipo è?
«Credo che Frank sia qualcuno che fino a un certo momento della sua vita non ha dovuto far altro che pensare a se stesso. Quando si trova a dover fuggire, deve vestire i panni di qualcun altro e recitare un ruolo diverso da quello a cui era abituato fino al giorno prima. Lo fa talmente bene che dentro di sé si risveglia qualcosa di sepolto da molto tempo. Si prende cura di altre persone e gli piace. Questo cambia radicalmente gli equilibri della sua vita».
L’altra protagonista della fuga è Charlotte. Una donna giovane che vediamo all’inizio sensibile ma rassegnata e non particolarmente brillante. Invece poi emerge una persona forte con un’intelligenza raffinata e una propensione all’arte della fotografia. Come ha concepito personaggio?
«Volevo un personaggio con molta potenzialità ma soffocata dalla vita in provincia, un matrimonio che toglie ossigeno e la mentalità gretta del tempo. Mi sono ispirato a mia mamma, che ha avuto una vita molto dura ed è una persona molto forte. Ha lavorato in uno studio fotografico e mi ha raccontato storie su come ritoccava con il pennello le foto. Per Charlotte la fotografia diventa un modo di osservare il mondo, di esprimersi, di crescere».
Di solito si tende a pensare che l’avere figli tolga la possibilità di rivoluzionare la propria vita, invece Charlotte scappa trovando la forza nelle due figlie. Pare pensi «ho due bambine per cui scappo» e non il classico «sono libera per cui scappo». È così?
«Esattamente: questo è davvero il significato del libro. Charlotte fugge per le figlie e anche per se stessa. Dalle figlie prende la forza per fare un passo enorme».
Il libro inizia con la morte di JFK, tema che prima o poi ogni grande scrittore americano deve affrontare. Perché?
«Per me, cresciuto molto vicino a Dallas in una famiglia cattolica, Kennedy è stato molto importante. Mia nonna, nel soggiorno aveva due quadri: uno della Vergine Maria e uno di JFK. Mia mamma, grande affabulatrice, mi raccontava che sono stato concepito la notte in cui kennedy è stato ucciso. Così, vero o no, Kennedy è sempre stato parte della mitologia familiare».
“November road” è un romanzo incredibilmente compatto per una trama così densa. Un altro scrittore ne avrebbe fatto un volume di 700 pagine. Come è riuscito a rendere il romanzo così profondo e snello?
«Questo è un complimento enorme per me, perché la mia intenzione principale è stata quella di essere breve e profondo. Ho tagliato tantissimo durante la stesura, volevo essere essenziale, volevo che il lettore avesse un’esperienza di lettura veloce e intensa. I dialoghi sono un altro punto forte del romanzo, riflettono perfettamente la cultura del tempo».
Siamo agli inizi degli anni Sessanta. Che lavoro ha fatto sui dialoghi dei personaggi?
«Per me i dialoghi sono la parte più importante del romanzo, attraverso il dialogo entro in connessione con i personaggi. Devo prima sentire le loro voci nella mia testa per capire le loro personalità».
È un libro che ha tanti piani di lettura, il principale è la fuga di due persone agli antipodi – una “normale' in provincia, e l’altra criminale in una grande città – Come è riuscito a metterle in relazione?
«Volevo far interagire due persone appartenenti a mondi completante diversi. Come scrittore non ero sicuro che potesse accadere: non è comune che questi due mondi si incontrino e si scontrino».
Come è riuscito a restituire le relazioni uomo\donna e nero\bianco, prima della grande rivoluzione culturale?
«In America la maggior parte della gente percepisce il tempo che passa attraverso la narrazione televisiva e, secondo questa, gli anni Cinquanta erano molto prosperosi e felici, ma non è la verità. Grandi cose stavano per succedere ma, sino ad allora, se eri donna, nero, povero, dovevi stare zitto e tranquillo. Volevo che il mio libro rappresentasse in maniera più autentica quelle che erano le istanze del periodo, Franck Guildry è dall’inizio l'emblema della sopravvivenza ma a un certo punto inciampa sul suo sconosciuto lato affettivo».
Che tipo è?
«Credo che Frank sia qualcuno che fino a un certo momento della sua vita non ha dovuto far altro che pensare a se stesso. Quando si trova a dover fuggire, deve vestire i panni di qualcun altro e recitare un ruolo diverso da quello a cui era abituato fino al giorno prima. Lo fa talmente bene che dentro di sé si risveglia qualcosa di sepolto da molto tempo. Si prende cura di altre persone e gli piace. Questo cambia radicalmente gli equilibri della sua vita».
L’altra protagonista della fuga è Charlotte. Una donna giovane che vediamo all’inizio sensibile ma rassegnata e non particolarmente brillante. Invece poi emerge una persona forte con un’intelligenza raffinata e una propensione all’arte della fotografia. Come ha concepito personaggio?
«Volevo un personaggio con molta potenzialità ma soffocata dalla vita in provincia, un matrimonio che toglie ossigeno e la mentalità gretta del tempo. Mi sono ispirato a mia mamma, che ha avuto una vita molto dura ed è una persona molto forte. Ha lavorato in uno studio fotografico e mi ha raccontato storie su come ritoccava con il pennello le foto. Per Charlotte la fotografia diventa un modo di osservare il mondo, di esprimersi, di crescere».
Di solito si tende a pensare che l’avere figli tolga la possibilità di rivoluzionare la propria vita, invece Charlotte scappa trovando la forza nelle due figlie. Pare pensi «ho due bambine per cui scappo» e non il classico «sono libera per cui scappo». È così?
«Esattamente: questo è davvero il significato del libro. Charlotte fugge per le figlie e anche per se stessa. Dalle figlie prende la forza per fare un passo enorme».