La Nuova Sardegna

La Nuova vi porta nell’isola magica di Giuseppe Biasi

di GIULIANA ALTEA
La Nuova vi porta nell’isola magica di Giuseppe Biasi

Genio della pittura tra modernità e tradizione: il libro in edicola da venerdì con il giornale 

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Pubblichiamo un brano tratto dal libro “Giuseppe Biasi” della storica dell’arte Giuliana Altea, curatrice del volume che sarà in edicola venerdì con la Nuova.

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Giuseppe Biasi, senza dubbio il maggior pittore sardo del Novecento, è un personaggio contraddittorio e affascinante: artista di raffinata cultura internazionale, eppure attaccatissimo alle proprie radici; abituato alla mondanità dei salotti, ma perfettamente a suo agio tra i pastori, nella solitudine degli stazzi; ironico, cinico, disincantato, e al tempo stesso romantico fino al midollo; fortemente individualista, ma pronto, in situazioni difficili, ad assumere coraggiosamente un ruolo di guida nei confronti dei colleghi; insofferente del clima della dittatura fascista, e però capace, per motivi ideali, di schierarsi col Fascismo nell’ora della sua crisi, quella della Repubblica Sociale.

AMATO MA POCO CAPITO. Questa contraddittorietà di scelte e di atteggiamenti, la stessa originalità della sua opera, piuttosto difficile da inquadrare nel panorama artistico italiano del primo Novecento, hanno finito per danneggiarlo. La critica nazionale lo ha per lungo tempo dimenticato, e in Sardegna è stato spesso attaccato, molto discusso, molto amato, ma generalmente poco capito. Dato che la sua opera torna con insistenza su un unico tema, la vita popolare sarda, si è voluto vedere in lui solo il pittore del folklore, l’illustratore di costumi. Poiché dipingeva soggetti locali, se ne è dedotto che il suo orizzonte fosse limitato e provinciale.

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Ma Biasi non è un cantore del colore locale e del pittoresco da cartolina: è un artista modernissimo ed estremamente personale, che ha scelto di percorrere la sua strada pur sapendo di muoversi controcorrente rispetto alla pittura italiana del proprio tempo. Se ha dedicato la vita a rappresentare la tradizione e i costumi della Sardegna, lo ha fatto perché, come altri intellettuali sardi del primo Novecento – a cominciare dagli scrittori Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Salvator Ruju –, si era assunto il compito di costruire una nuova identità per la sua terra, di aiutarla a liberarsi del peso di una lunga oppressione coloniale o semicoloniale. Come la Deledda o Ruju, si sentiva al bivio tra due mondi, diviso tra l’eredità ancora ben presente del passato contadino e pastorale e la modernità ormai alle porte. Di quel passato, che processi di trasformazione sociale e culturale sempre più rapidi minacciavano di cancellare per sempre, Biasi sentiva fortemente il fascino.

SEDOTTO DAL PRIMITIVO. Da intellettuale di città, subiva la seduzione di una civiltà infinitamente diversa da tutto quello cui era abituato, di luoghi dove il tempo pareva essersi fermato e dove ancora l’esistenza era scandita da ritmi immutabili, governata da riti e usanze antichissimi. Il mito del primitivo, il sogno di un mondo non guastato dalla civiltà e dal progresso ma vergine e intatto, ricco di energie vitali, è al centro. del lavoro di Biasi come di tanti altri artisti della sua epoca, da Paul Gauguin a Gustav Klimt, da Pablo Picasso agli espressionisti tedeschi. Però, a differenza di Gauguin, Picasso o Klimt, Biasi non aveva bisogno di andare a cercare il primitivo nelle isole dei mari del Sud, nell’Africa tribale o nell’Oriente slavo e bizantino: gli bastava uscire dalla sua città, Sassari, e addentrarsi nei villaggi vicini come Ittiri ed Osilo.

Qui sopravviveva una gente arcaica, misteriosa e solenne: uomini semplici e gravi come re pastori; donne silenziose e altere che camminavano con innata grazia, «con un passo che non è il passo di una contadina». Cosa avevano a che fare, quel mondo e quella gente, con la Sardegna descritta dalle commissioni d’inchiesta parlamentari e analizzata dagli antropologi, un’isola infelice afflitta dalla malaria, divorata dalla miseria e dalla fame, infestata dai banditi e lacerata dalle faide, popolata da una “razza delinquente”, da una popolazione ereditariamente predisposta al crimine?

SPLENDORE E MISERIA. La nobile Sardegna primitiva e la terra miserabile in cui lo Stato italiano mandava per punizione i suoi funzionari indisciplinati erano in effetti due facce della stessa medaglia; lo splendore dei costumi popolari, la suggestiva bellezza delle feste contadine non escludevano la fame, il banditismo e le vendette.

Ma Biasi sceglie di mostrare solo i primi, mettendo in atto una precisa inversione di valori: quella che era una terra desolata e selvaggia diventa un Eden primitivo, un paradiso esotico nel cuore dell’Europa, la “razza delinquente” degli antropologi assume i tratti di una razza eletta: «l’uomo non è l’uomo che si trova tutti i giorni – scriverà l’artista nel 1935 –. Perché se l’abito del lavoratore è sporco, il gesto lo tradisce … ed un gentiluomo di razza che venga qui e, sempre, quando viene … capisce subito che qui c’è una razza».

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