Giallo in un Marocco che guarda al passato
Pubblicata da Sellerio la nuova opera dello scrittore maghrebino Khadra “L’affronto” si snoda tra colpi di scena polizieschi e qualche cliché di troppo
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Tra i maggiori scrittori maghrebini, Yasmina Khadra è noto al grande pubblico in particolar modo per la serie di romanzi polizieschi ambientati in una Algeri apocalittica, dove miseria e lusso, crimine organizzato e terrorismo sembrano coesistere. Mi riferisco in particolar modo a quelli pubblicati negli anni ‘90 e inizialmente tradotti per le edizioni e/o, tra i quali ricordiamo “Morituri” (1998) e “Doppio bianco” (1999). Nel corso degli ultimi vent’anni lo scrittore algerino, residente in Francia dal 2000, ha spesso abbandonato l’Algeria come ambientazione per esplorare le società e le culture di Paesi anche molto distanti dal suo, ancorché di cultura musulmana: si pensi, per menzionarne solo alcuni, a “Le rondini di Kabul” (Mondadori, 2003), una storia di riscatto e, insieme, un omaggio alla donna, in un Afghanistan schiacciato dal regime talebano; oppure a «L’attentato» (Sellerio, 2016), dove protagonista è uno stimato chirurgo palestinese naturalizzato israeliano la cui vita viene sconvolta quando scopre che sua moglie si è fatta esplodere in un ristorante di Tel Aviv. Lo stesso accade nel suo ultimo romanzo, «L’affronto» (Sellerio, 258 pagg., 14 euro), dove protagonista è il Marocco ritratto in tutto il suo splendore: tra magnificenza e decadenza, folclore e stereotipi, povertà e corruzione, in un percorso che dalle città imperiali - Fès, Marrakech e Rabat -, giunge fino a Tangeri e Casablanca, arrivando fino all’entroterra rurale. Un ritratto non solo parziale ma per giunta anacronistico, se è vero che non vi si ravvisa alcuna traccia dell’eccezionale processo di revisione e reinterpretazione che dal 2004, con la riforma del Codice di famiglia (Moudawana) e più recentemente con la Marrakech Declaration sta, seppur lentamente e con qualche intoppo, modernizzando il Paese.
Il congegno narrativo del romanzo è quello più tradizionale, e Yasmina Khadra si rivela come di consueto abile nella resa dell’intreccio: Driss Ikker, vicecommissario della polizia giudiziaria, rientrando a casa, dopo una missione fallita a Rabat, trova sua moglie completamente nuda e ammanettata al letto coniugale; non ha il tempo di muovere un solo muscolo che sviene a causa di un colpo alla testa. Si risveglia poco più tardi in ospedale, dove i medici gli confermano che la donna è stata vittima di una brutale aggressione. Dopo un iniziale momento di totale prostrazione per l’affronto subito, Ikker comincia a indagare sul caso parallelamente al corrotto ispettore incaricato, Alal Jay. Da qui la narrazione procede spedita con una rapida successione di colpi di scena, ma finisce per inciampare nel ricorso insistente del narratore a registri lessicali incongrui o che talvolta tendono al cliché, come quando ci dice che «il medico fece una risatina che suonava falsa come il campanile di una chiesa in terre islamiche». Ciò su cui però è difficile non indugiare sono due elementi che nella storia sono legati a doppio filo, e vale a dire la rappresentazione monotonale delle donne (tutte fedifraghe, leziose, dedite al pettegolezzo, succubi dei loro mariti) e l’intenzione dichiarata di caratterizzare orientalisticamente la storia, con continue evocazioni delle Mille e una notte, con tanto di incenso e di oppio, con custodi vestiti da eunuchi e persino «un colosso nero, tutto muscoli guizzanti (che) massaggia le caviglie» di una facoltosa e a annoiata signora.
Il congegno narrativo del romanzo è quello più tradizionale, e Yasmina Khadra si rivela come di consueto abile nella resa dell’intreccio: Driss Ikker, vicecommissario della polizia giudiziaria, rientrando a casa, dopo una missione fallita a Rabat, trova sua moglie completamente nuda e ammanettata al letto coniugale; non ha il tempo di muovere un solo muscolo che sviene a causa di un colpo alla testa. Si risveglia poco più tardi in ospedale, dove i medici gli confermano che la donna è stata vittima di una brutale aggressione. Dopo un iniziale momento di totale prostrazione per l’affronto subito, Ikker comincia a indagare sul caso parallelamente al corrotto ispettore incaricato, Alal Jay. Da qui la narrazione procede spedita con una rapida successione di colpi di scena, ma finisce per inciampare nel ricorso insistente del narratore a registri lessicali incongrui o che talvolta tendono al cliché, come quando ci dice che «il medico fece una risatina che suonava falsa come il campanile di una chiesa in terre islamiche». Ciò su cui però è difficile non indugiare sono due elementi che nella storia sono legati a doppio filo, e vale a dire la rappresentazione monotonale delle donne (tutte fedifraghe, leziose, dedite al pettegolezzo, succubi dei loro mariti) e l’intenzione dichiarata di caratterizzare orientalisticamente la storia, con continue evocazioni delle Mille e una notte, con tanto di incenso e di oppio, con custodi vestiti da eunuchi e persino «un colosso nero, tutto muscoli guizzanti (che) massaggia le caviglie» di una facoltosa e a annoiata signora.