Francesco Piu: «Cosa ci insegna la musica? A non perdere la speranza»
di Paolo Ardovino
Il bluesman di Osilo racconta come è nato il suo ultimo disco “Live in France” e gli insospettabili collegamenti tra una nazione che ama e la sua Sardegna
09 dicembre 2021
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Risponde al telefono e la prima domanda la fa lui: «Com’è il disco? Non l’ho ancora ascoltato, mi piace poterlo fare in auto con le casse che ti avvolgono, per ora sto chiedendo agli altri». Canta amori maledetti e storie di oppressione e consuma le corde delle chitarre ma poi, spento l’amplificatore, Francesco Piu è la voce della leggerezza. La piccola figlia Emma gli chiede di giocare, «papà sta facendo un’intervista, aspetta», in un fine settimana in famiglia nella sua Osilo. Tra i migliori bluesman d’Europa, Francesco Piu ha pubblicato il nuovo album “Live in France”, registrato dal vivo al Theatre Municipal di Sens, in Borgogna. Accompagnato da Silvio Centamore alla batteria, Davide Speranza all’armonica e da un altro chitarrista, Roberto Luti: la sua «Groovy brotherhood».
Un disco dal vivo e anche un omaggio alla Francia?
«Ho cominciato a suonare sui palchi francesi nel 2010, e da lì in maniera continuativa l’ho fatto ogni anno. Mi ha sempre colpito la grande accoglienza e l’entusiasmo. C’è particolare attenzione alla musica e ora quando ho date in Francia sono felice, col tempo ho avuto modo di innamorarmi del Paese. Perciò sì, il disco nasce dall’esigenza di voler testimoniare questo progetto ma anche come ringraziamento».
La “Groovy brotherood” è inedita. Un gruppo di musicisti con cui hai condiviso molti palchi ma mai contemporaneamente, sotto questa formazione. Mi spieghi come avete strutturato il live?
«Alla base di tutto c’è la voglia di creare groove. Io ho suonato molto a contatto con la batteria, Silvio è un batterista che “colora” ma mai in maniera invasiva, l’ho sempre apprezzato. Con lui creiamo la base groove, andando a lavorare molto sui bassi, per permettere ai nostri Ronaldo e Baggio, e cioè Roberto e Davide, di fare gol. Mi piace avere questo ruolo, perché quando suono con loro due davanti mi piace anche ascoltarli e sono curioso di cosa tirano fuori».
Mentre gli altri sono spesso presenti nei tuoi concerti e negli album, con Roberto Luti avete suonato insieme nel 2018 in una serie di serate anche nell’isola, poi perché hai deciso di chiamarlo in questa formazione e com’è stata la convivenza tra voi, due grandi chitarristi sullo stesso palco nello stesso momento?
«Esatto, con Luti tutto è partito da quei concerti, ci siamo trovati bene e avevamo lasciato il discorso in sospeso. Per me suonare insieme a lui è bello, un grande onore e una goduria, c’è tanta stima. In Italia è il mio preferito. Dico in Italia, ma si potrebbe accostare tranquillamente a grandi nomi esteri (Luti è noto al grande pubblico attraverso il supergruppo “Play for change”, ndc)».
Fuori dai confini italiani, come viene avvertito in questo momento il movimento blues?
«In Europa, così come in Francia, c’è una scena attiva di festival e nuovi artisti, e gli italiani vengono molto apprezzati: credo sia per il tratto mediterraneo che rende il nostro un blues diverso da quello di altri Stati dove si va più a ricalcare lo stile tipico americano. In Europa stiamo vivendo una seconda fase, c’è chi ha iniziato nei decenni scorsi e aveva il ruolo di apripista, tendeva a riproporre suoni statunitensi e british. La generazione successiva, di cui faccio parte, ha un approccio diverso. Certe porte sono già state aperte, e abbiamo più libertà rispetto alla matrice americana».
Torniamo all’album. Nella tracklist figurano le canzoni più caratteristiche della tua carriera concertistica. Con “Live in France” di alcuni brani sei arrivato ad avere tre o quattro versioni differenti disseminate nella tua discografia. È difficile riuscire a trovare sempre nuove chiavi di lettura?
«Il disco è pensato proprio come un live. La cosa bella è questa: che la musica non si fossilizza, un brano è sempre vivo e mai fatto e finito. Con questo disco ho sentito l’esigenza di fotografare il momento, ed è stato anche terapeutico per trovare la forza di proporre qualcosa in un periodo difficile per tutti».
Un disco dal vivo e anche un omaggio alla Francia?
«Ho cominciato a suonare sui palchi francesi nel 2010, e da lì in maniera continuativa l’ho fatto ogni anno. Mi ha sempre colpito la grande accoglienza e l’entusiasmo. C’è particolare attenzione alla musica e ora quando ho date in Francia sono felice, col tempo ho avuto modo di innamorarmi del Paese. Perciò sì, il disco nasce dall’esigenza di voler testimoniare questo progetto ma anche come ringraziamento».
La “Groovy brotherood” è inedita. Un gruppo di musicisti con cui hai condiviso molti palchi ma mai contemporaneamente, sotto questa formazione. Mi spieghi come avete strutturato il live?
«Alla base di tutto c’è la voglia di creare groove. Io ho suonato molto a contatto con la batteria, Silvio è un batterista che “colora” ma mai in maniera invasiva, l’ho sempre apprezzato. Con lui creiamo la base groove, andando a lavorare molto sui bassi, per permettere ai nostri Ronaldo e Baggio, e cioè Roberto e Davide, di fare gol. Mi piace avere questo ruolo, perché quando suono con loro due davanti mi piace anche ascoltarli e sono curioso di cosa tirano fuori».
Mentre gli altri sono spesso presenti nei tuoi concerti e negli album, con Roberto Luti avete suonato insieme nel 2018 in una serie di serate anche nell’isola, poi perché hai deciso di chiamarlo in questa formazione e com’è stata la convivenza tra voi, due grandi chitarristi sullo stesso palco nello stesso momento?
«Esatto, con Luti tutto è partito da quei concerti, ci siamo trovati bene e avevamo lasciato il discorso in sospeso. Per me suonare insieme a lui è bello, un grande onore e una goduria, c’è tanta stima. In Italia è il mio preferito. Dico in Italia, ma si potrebbe accostare tranquillamente a grandi nomi esteri (Luti è noto al grande pubblico attraverso il supergruppo “Play for change”, ndc)».
Fuori dai confini italiani, come viene avvertito in questo momento il movimento blues?
«In Europa, così come in Francia, c’è una scena attiva di festival e nuovi artisti, e gli italiani vengono molto apprezzati: credo sia per il tratto mediterraneo che rende il nostro un blues diverso da quello di altri Stati dove si va più a ricalcare lo stile tipico americano. In Europa stiamo vivendo una seconda fase, c’è chi ha iniziato nei decenni scorsi e aveva il ruolo di apripista, tendeva a riproporre suoni statunitensi e british. La generazione successiva, di cui faccio parte, ha un approccio diverso. Certe porte sono già state aperte, e abbiamo più libertà rispetto alla matrice americana».
Torniamo all’album. Nella tracklist figurano le canzoni più caratteristiche della tua carriera concertistica. Con “Live in France” di alcuni brani sei arrivato ad avere tre o quattro versioni differenti disseminate nella tua discografia. È difficile riuscire a trovare sempre nuove chiavi di lettura?
«Il disco è pensato proprio come un live. La cosa bella è questa: che la musica non si fossilizza, un brano è sempre vivo e mai fatto e finito. Con questo disco ho sentito l’esigenza di fotografare il momento, ed è stato anche terapeutico per trovare la forza di proporre qualcosa in un periodo difficile per tutti».