Ignazio Caruso: «Il mio “Adeu”, prima storia scritta con rabbia»
Il giovane scrittore algherese parla del suo romanzo
Quando Ignazio Caruso parla di libri, la sua voce calda e roca si abbassa di un’ottava. Era un sogno sacro, per lui, la scrittura, e ci sono voluti anni di “maturazione interiore” per provare a realizzarlo. Ce l’ha fatta, alla fine, e in “Adeu” (Giulio Perrone editore, 288 pagine, 19 euro) si legge tutta, sullo sfondo di una storia cruda e intensa in cui i figli uccidono i padri e il destino non lascia speranze, ma solo distacchi.
Che effetto le fa aver pubblicato il primo romanzo?
«Strano e bellissimo: ho sempre avuto la passione per la scrittura ma è l’ho sempre vista come una cosa alta, fuori della mia portata. Ci ho messo un po’ ad avere il coraggio di provare. Dopo i ventisei anni ho iniziato a scrivere i primi racconti ma il romanzo l’ho trovato più congeniale: avevo più margine e più spazio. Grazie alla mia editor, ho limato diverse parti della struttura e dello stile. È stato difficile ma stimolante».
Come è nato Adeu?
«Avevo letto una storia popolare in cui, dopo un lungo viaggio, il figlio uccideva il padre. Aveva in sé tanti riti di passaggio, ma su tutti la separazione dal genitore, e l’ho sentita mia per le esperienze di vita che avevo alle spalle, ma anche per un motivo generazionale: i ragazzi della mia età hanno avuto difficoltà ad affermarsi e spesso perché le vecchie generazioni non demordevano. Così, ho creato la República di Cadossene, dove i giovani prendono il posto dei vecchi in maniera violenta, rituale. Era la storia per cui valeva la pena scrivere».
L’ha scritto con rabbia, quindi?
«Non solo. In questa storia ci sono dolori, paure e insicurezze che non ho mai esorcizzato. Non credo nel potere taumaturgico della scrittura, non penso che possa guarire. Io ho scritto semplicemente per sentirmi meno solo. È stato il modo in cui ho espresso meglio quello che avevo dentro».
Quanto c’è di lei in Eloi, il figlio che deve uccidere il padre Nevio?
«C’è molto. Eloi è un trentenne che vorrebbe che tutto restasse uguale, uno scansafatiche che odia il cambiamento e le prove che la vita mette davanti. La lettera che lo obbliga all’Adeu, il rito di uccisione, lo vincola a compiersi come persona e all’ultimo viaggio insieme al padre».
Che effetto le fa incontrare i lettori dal vivo non solo con la scrittura?
«È una magia: sono felice quando questo libro riesce ad arrivare alle persone, quando mi danno un riscontro. La prima presentazione ad Alghero è stata splendida, perché in Adeu c’è il dialetto algherese, la lingua che da bambino non capivo e che usavano i grandi per parlare fra loro. Quando parlo algherese torno bambino e Adeu torna a casa».