La Nuova Sardegna

L’intervista

Pablo Trincia: «Per fare inchieste e raccontare il male devi chiamare le cose con il loro nome»

di Paolo Ardovino
Pablo Trincia: «Per fare inchieste e raccontare il male devi chiamare le cose con il loro nome»

Il giornalista e podcaster ospite del festival “Once upon a place” a Ghilarza

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Raccontare è il verbo che muove Pablo Trincia. Giornalista, autore televisivo e podcaster, prima era la iena con l’abito nero che faceva inchieste in giro per il mondo. Ora sfoglia tra le storie del passato o dell’attualità per spiegarle, per andare in profondità e farne inchieste a puntate o documentari da guardare o solo ascoltare.

La prima volta nell’isola per Trincia fu da inviato delle Iene, a Perdasdefogu. Ieri è tornato per raccontare, in dialogo con Carolina Orlandi, il dietro le quinte, i famosi segreti del mestieri, sul palco dell’auditorium di Ghilarza dove si è tenuto il primo dei due giorni di “Once upon a place”. Il festival si concentra sulle storie di marketing territoriale, sulla narrazione e sulle strategie digitali.

Oggi, 29 marzo, saranno tanti, tra personalità regionali, nazionali e addetti ai lavori, i protagonisti dei talk dalla mattina al tardo pomeriggio.

Pablo Trincia, come ci si sente quando si viene chiamati a parlare del proprio lavoro, e cioè raccontare i fatti, e cosa le chiedono di più quando fa visita a festival come ieri?

«Una domanda che mi viene posta sempre è che impatto psicologico hanno certi temi. Io ci tengo a fare sempre un discorso sulle sfumature, sul grigio».

Cioè?

«Spesso nel nostro lavoro si tende a catalogare tutto. È più facile stabilire se una cosa sia bianca o nera perché il grigio è complessità, è una materia difficile da affrontare, richiedere studio, impegno e pensieri».

Mi dice una vicenda che in particolare l’ha colpita?

«Quella di “Veleno” (Negli anni ’90 in provincia di Modena, sedici bambini furono allontanati dalle loro famiglie accusate di far parte di una setta satanica di pedofili, ndr). Mi ha portato via l’anima. Immagina, il racconto di sedici bambini allontanati dalle famiglie, dentro ci sono state paura, paranoie, tantissimi incubi, soprattutto da genitore. Ma poi anche le altre a loro modo hanno avuto degli impatti, ogni storia è un pugno in faccia e l’aspetto più difficile non è mai il dolore delle persone in sé, ma le ingiustizie che subiscono».

Come fa un fatto di cronaca a diventare storia collettiva? Penso al disastro di Rigopiano, che ha raccontato nel podcast “E poi il silenzio”.

«Avviene quando riesci a tirare fuori l’anima dei protagonisti, delle persone coinvolte. Perché è quel che avvicina le persone, crea empatia. Alla fine diventi un semplice tramite tra la connessione che si crea».

In un’attualità che sta mettendo in discussione quasi quotidianamente la figura del giornalista, e il compito del raccontare i fatti, oggi cosa significa fare questo lavoro?

«Significa essere una persona molto preparata e che ha una visione delle cose dall’alto. Però anche che non ha paura a entrare nella boscaglia, a raccontare temi difficili. Penso a “Sangue loro”, dentro c’è il terrorismo, o appunto alle accuse di pedofilia. Vedo ciò che succede in Palestina e vedo un genocidio, vedo Trump e vedo la follia, così come Putin. Le cose vanno chiamate con il loro nome e il nostro mestiere ci richiede questo. L’obiettività non esiste, siamo esseri umani con le nostre visioni. Esiste però l’approccio scientifico alla materia».

A cosa sta lavorando adesso?

«Al caso di Donato Bergamini, calciatore morto in Calabria nel 1989. Si tratta di una produzione Sky, sarà un podcast e una docuserie, uscirà quest’anno».

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