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Il Natale senza luminarie portava la luce nel cuore

di Lisa Dalu*
Il Natale senza luminarie portava la luce nel cuore

La festa non è stata sempre come adesso, non c’erano alberi addobbati e regali, c’era lo stare insieme alle persone care e la solidarietà verso chi aveva di meno

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Quando arriva dicembre, si è forse troppo accecati dalle luci natalizie per fermarsi a pensare alla vera essenza della festività che tanto è acclamata in tutto il mondo. Di conseguenza non si ha nemmeno tempo per rendersi conto che il Natale non è sempre stato così sfarzoso e principesco come lo si percepisce attualmente. Un tempo era totalmente diverso. Basti pensare che in alcuni paesi della Sardegna, negli anni Quaranta del Novecento, a Natale, era normale non ritrovarsi circondati da alberi addobbati e da ghirlande. Il trascorrere le festività non prevedeva queste usanze, ma implicava altri valori come la solidarietà e lo stare insieme.

Nei giorni antecedenti alla vigilia, la famiglia iniziava i “preparativi” che consistevano nel pulire la casa e soprattutto era importante lucidare gli utensili in rame, che sarebbero stati utilizzati per cucinare le pietanze. La cena del 24 dicembre prevedeva le tipiche portate, come il maialetto arrosto, i culurgiones e “sas seatas”; tuttavia, tale giorno era interamente incentrato sull’arrivo della mezzanotte, il momento più importante. Durante la sua attesa si cercava di impiegare il tempo con particolari attività come tagliare le mandorle e la frutta secca, in genere con l’aiuto di pietre. Questo lavoro richiedeva abbastanza impegno e teneva la famiglia unita e occupata anche per delle ore, inoltre le mandorle erano un alimento di cui molti disponevano e non erano quindi difficili da trovare. Appena l’ora si avvicinava, si usciva fuori dalle case e ci si avviava verso la chiesa del paese, per il tragitto si portavano con sé dei rami accesi dal camino, il cosiddetto “chicone”, in modo da illuminare il percorso, dato che non si disponeva della corrente elettrica. In chiesa si teneva la messa per Gesù Bambino: “su Ninnieddu”, a cui partecipava tutto il paese e gli unici che potevano essere esonerati erano i bambini e i ragazzi più giovani perché andavano a quella del giorno dopo, ma ciò dipendeva comunque dalla scelta genitoriale. Era anche comune sparare dalle finestre al rintocco della mezzanotte, “su toccu e sa missa”. Il giorno seguente tutti andavano in chiesa verso le otto o le nove di mattina, si indossava “s’istire de sa duminiga” oppure il costume sardo. Al rientro dalla funzione, non si davano i regali come oggi, anzi, di rado ci si faceva regali in famiglia, però a volte le madri realizzavano per le loro figlie delle bamboline con pezzi di stoffa, “sa pipiedda de istrazzu”.

Dopo il pranzo, tempo permettendo, si stava generalmente nelle vie principali del paese e si giocava a carte o a tombola, fino a quando c’era sufficiente luce solare. Il 25 dicembre, capitava anche che si svolgesse la tradizione del “coju viu”: sfruttando l’occasione del Natale, un giovane, che voleva sposare una ragazza, mandava un suo parente a casa dei genitori di lei per chiederne la mano, ovviamente ciò era più facile se l’inviato aveva legami con la famiglia della giovane o se era una figura abbastanza rilevante all’interno del paese. Il Natale era anche un momento di condivisione e sostegno, non di rado si regalava del cibo alle famiglie più povere, oppure le famiglie che disponevano di un modesto bestiame, erano disposte a donare qualche animale. Conoscere tutto ciò dalla memoria dei nostri anziani non rappresenta solo l’acquisizione di una curiosità in più, ma può aiutare a riflettere su come venga vissuto questo periodo dell’anno, al di là dei consumi e delle feste materialistiche.

*Lisa studia al liceo Pira di Siniscola
 

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