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La storia

Dopo 31 anni a subire violenza, la fuga dalla città per rinascere

di Simonetta Selloni
Dopo 31 anni a subire violenza, la fuga dalla città per rinascere

Il racconto di Cinzia Seddone nel suo libro “Come una fenice”

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Nuoro «Cosa è stato toccare il fondo? Non riuscire a pensare al domani. Non avere una speranza, essere talmente abituata a quello schema di violenza subìta, che la deviazione, anche per uscirne, non era contemplata. E in più, la paura di diventare come lui. Mi dava uno schiaffo? Lo restituivo. Prendeva il coltello in mano? Lo prendevo anche io. Stavo diventando una bestia come lui».

Cinzia Seddone ha 62 anni e 31 di questi li ha passati in balìa di un fidanzato violento. Dentro meccanismi avvolgenti e subdoli in cui la demolizione dell’autostima è passata attraverso violenze psicologiche: non sai niente, non sai fare niente, non vali niente. Quindi: «Te le meriti, le botte». E se in un perverso immaginario che i violenti utilizzano per giustificare l’ingiustificabile, queste botte erano inserite in un contesto preciso «Mi colpiva soprattutto quando era ubriaco: pugni, calci, schiaffi, minacce. Mi ha rotto il naso», alla fine si arriva alla svolta: «Botte anche quando non beveva». Dentro Cinzia scatta qualcosa: «Un giorno mi sono svegliata e ho pensato: se mi picchia, prendo il volo». Le botte sono arrivate, puntuali. Le ultime: lei è scappata, letteralmente. In un giorno, sostenuta dalla sua famiglia, ha fatto i bagagli e ha lasciato Nuoro. Aveva 47 anni, è stato 15 anni fa. È approdata in Abruzzo, dove lavora. Dove soprattutto ha abbandonato la contabilità del terrore e vive una vita serena.

Cinzia Seddone la sua storia l’ha raccontate nel libro “Come una fenice”, editore Masciulli. Lo presenterà oggi, alle 18, alla Biblioteca Satta. Con lei ci saranno Marina Piano, responsabile dell’area di servizio sociale dell’Ufficio esecuzione penale esterna, in un convegno organizzato dal comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro, dall’Unione avvocati della Sardegna e dal Consorzio per la pubblica lettura Sebastiano Satta. I lavori saranno introdotti dal presidente Unas, Priamo Siotto. Il dibattito sarà moderato da Maria Concetta Sirca, presidente del comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro.

«Ho portato avanti questa storia di violenza senza far uscire nulla. Per paura di lui, ma anche per vergogna. Per me, per la mia famiglia», racconta Cinzia. Una famiglia lontanissima dagli stereotipi del disagio, a riprova che certe situazioni non siano il frutto di ambienti disastrati: «Non c’è nulla di più trasversale della violenza», ammette. E così il silenzio e la vergogna lavorano a favore del violento. «A casa non si accorgevano. Sono stata bravissima a evitare che potessero spaventarsi. Un pugno in faccia, con i segni e i lividi? Avevo spiegato che ero caduta e avevo sbattuto alla ringhiera».

Intanto il meccanismo di allontanamento dagli affetti familiari che i violenti mettono in atto, funzionava, in questo caso, quasi in automatico. «Ero io che mi isolavo dai miei familiari. C’era un compleanno di un nipotino da festeggiare? Accampavo una scusa e non ci andavo. Mi sembrava fosse più importanti proteggere loro, quasi più che proteggere me stessa», racconta Cinzia.

Violenze fisiche e psicologiche. Addirittura a Cinzia Seddone viene diagnosticato un principio di Alzheimer. «Pazzesco, avevo 40 anni. Dimenticavo tutto». Anche a questa diagnosi Cinzia mette un argine. «Quando sono scappata e sono arrivata in Abruzzo, ho ripreso a fare la cosa che mi riusciva meglio: mi sono rimessa a studiare. Biologia. C on i primi due esami, due 30, sono andata dalla neurologa: “Le sembrano i risultati di una con l’Alzheimer?”».

La fuga si paga a prezzi da inflazione. «Ero invisibile e impaurita. Non mettevo la targhetta del mio nome nel citofono». Due mesi dopo l’arrivo in Abruzzo, il terremoto. Un altro banco di prova, come se non bastasse il doversi guardare le spalle, con il timore che quell’uomo ricomparisse. Piano piano, Cinzia rinasce. «Sono una naturopata, metto a disposizione la mia esperienza anche delle altre donne».

Nel frattempo: un processo nei confronti del fidanzato violento si è concluso dopo una durata di nove anni con una condanna per un reato secondario. «Mi avevano chiamata dal tribunale tre anni dopo l’accaduto». Allora non c’era il Codice rosso, le norme che imprimono velocità ai casi di violenza di genere e in famiglia con l’intervento in tre giorni della magistratura. Poi, l’arrivo del Covid, la vicenda di Giulia Tramontano, «Questa donna uccisa mentre portava nel grembo il suo bambino mi ha spinta a scrivere. Scrivere è diventata quasi una terapia». Oggi Cinzia torna nella sua città senza più la paura di esporre se stessa e la sua famiglia ai giudizi degli altri, quello che oggi rientra nella vittimizzazione secondaria e che allora aveva un nome: vergogna. «Non ho nulla da dire a quell’uomo. Mi auguro che abbia la consapevolezza di quello che ha fatto». Lei ha voltato pagina, la sua è una storia di speranza. Di rinascita, proprio come la fenice.

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