La Nuova Sardegna

Oristano

Il reportage

Le donne sotto il regime dei talebani, gli scatti di Valentina Sinis sulla libertà negata

di Enrico Carta
Le donne sotto il regime dei talebani, gli scatti di Valentina Sinis sulla libertà negata

Il lavoro della fotografa dopo due mesi trascorsi in Afghanistan

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Oristano A metà del viaggio di rientro, quando ancora era sull’aereo che la riportava verso casa, ha tolto il hijab. È stato un gesto di liberazione da un’oppressione durata quasi due mesi, seppure vissuta da occidentale e quindi rimanendo donna libera in quel mondo che le donne le vuole prigioniere. Alle spalle, la fotografa oristanese Valentina Sinis si era appena lasciata l’Afghanistan, la terra dei talebani. Da lì, è tornata indietro con un reportage fotografico, uno dei suoi, che raccontano mondi e storie lontane come già aveva fatto in Cina, in Thailandia, in Kurdistan. Pur tra le mille difficoltà legate alle restrizioni dei diritti e alla libertà di movimento e di azione, ha costruito, scatto dopo scatto, il suo “Were afghan women to svelar their tales (Se le donne afghane svelassero le loro storie)”, dove quello svelare non è solo un riferimento ai pensieri e ai sentimenti che ciascuna di loro si porta dentro, ma è anche legato all’impossibilità di liberarsi del velo che è ben più di un capo di abbigliamento.

Da quando i talebani sono tornati al potere, la quotidianità delle donne afghane è fatta di privazioni. Quel barlume di libertà che avevano accarezzato durante il tentativo non riuscito di instaurare un duraturo governo democratico è crollato nell’agosto del 2021. Da allora sono stati emessi oltre settanta decreti e direttive che limitano l’accesso delle donne all’istruzione, all’occupazione, all’assistenza sanitaria e alla libertà di movimento. Eppure, anche in mezzo a questo mondo ingessato e oscurato, ci sono vite che scorrono e storie da raccontare con le immagini. «È un lavoro lento, molto difficile e pericoloso prima di tutto per le persone con cui stabilisci dei contatti – racconta Valentina Sinis –. Ogni passo deve essere misurato per non mettere loro in difficoltà». Poi, pian piano, si riesce a districarsi tra le maglie dell’oppressione del regime e allora è possibile entrare fisicamente in quei luoghi che diventano allo stesso tempo rifugio e brandelli di libertà.

È tra scuole per bambini orfani, in classi più o meno segrete in cui la ragazzine imparano a cucire o in casa di qualche attivista che cerca di mantenere in vita, pressoché interamente in maniera clandestina, un barlume di autonomia. È, ad esempio, la storia di Bahareh, che prima studiava scienze e sognava un futuro da donna libera. Oggi compiendo un atto di silenziosa ribellione, Bahareh ha avviato una classe di cucito segreta a Kabul. Dopo la sesta elementare, le bambine devono infatti interrompere la loro istruzione, perché sotto il regime talebano le ragazze non possono frequentare le scuole superiori e le università, e le donne sono escluse dalla maggior parte delle forme di impiego.

A Bamiyan, a cinque ore di macchina da Kabul, Najiyeh ricorda i giorni in cui si poteva andare al parco. Ora lo possono frequentare solo i maschi e le uniche a cui è concessa una passeggiata sono le bambine. «Anche la bellezza della terra è stata loro negata – spiega Valentina Sinis –. Najiyeh mi ha raccontato che le loro famiglie hanno paura per loro, che non possono far nulla senza che gli uomini talebani le osservino. Mi diceva che si sentono come prigioniere nelle loro stesse case». Con coraggio c’è chi prova a rompere le sbarre di una prigione grande quanto una nazione. È il caso di Zahra che a Kabul svolge corsi di make up in segreto e con tanta nostalgia degli anni in cui i saloni di bellezza si moltiplicavano dopo il primo crollo del regime fondamentalista. «Lo fanno cercando di guadagnare un po’ di soldi – racconta Valentina Sinis –, ma non è solo questo che spinge lei e altre a rischiare: si tratta di mantenere viva la propria identità, una piccola parte di sé stesse. È un rifiuto di essere cancellate del tutto».

Poi c’è Mina che sempre nella capitale gestisce una piccola panetteria quasi nascosta agli occhi dei passanti. Un tempo vi lavoravano oltre trenta donne, ora sono in sette e preparano il kolucheh, un dolce tradizione. Tutte le altre le ha dovute lasciar andare perché sotto i talebani le donne non possono lavorare. E poi c’è Fatimah. Suo marito è un membro di lunga data dei talebani e lei «vive in un mondo modellato dall’affiliazione di suo marito con il gruppo, tanto da arrivare a dirmi: “Io sostengo i talebani. Da quando sono tornati al potere, la sicurezza è migliorata. L'economia è migliore. Soprattutto, non dobbiamo più nasconderci”», riferisce Valentina Sinis che ritiene che la sua sia «un’accettazione del regime silenziosa, ma ferma. Studiare in una madrasa per imparare a leggere il Corano non è per lei un atto di resistenza, ma un’affermazione silenziosa del nuovo ordine. È il suo modo di trovare uno scopo in un mondo che è cambiato. Mentre Bahareh, Zahra e Najiyeh lottano contro i confini imposti su di loro. Fatimah ha scelto di ritagliarsi una vita che si adatta a tali vincoli. È una donna che ha trovato pace nell’ubbidienza», conclude Valentina Sinis. È per loro che il volo del ritorno si porta appreso anche tanta amarezza.

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