La Nuova Sardegna

C’era una volta la rogna

C’era una volta la rogna

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C’era una volta la rogna. Questi spot contro i pidocchi che la tv trasmette gentilmente all’ora di pranzo (per lo meno alla latitudine Sud) mi fanno tornare in mente certe malattie d’altri tempi.

La seconda guerra mondiale, per esempio: in Sardegna, e in particolare a Sassari, fu preceduta da una grande epidemia di scabbia e seguita da una micidiale epidemia di tifo. Si scrive scabbia ma si legge rogna. Nome con il quale la malattia era conosciuta e temuta. Protagonista era un acaro (nome scientifico Sarcoptes scabiei), un animaletto perfino più che microscopico, che si infilava sotto la pelle e ci scavava dei tunnel, «che apparivano come piccoli rilievi tortuosi e grigiastri» e provocavano un irresistibile prurito, soprattutto - sto citando da un testo medico - fra le dita, ai polsi, alle ascelle, ai glutei e ai genitali.

Nella primavera del 1940 quella rogna l’ho avuta anch’io: non mi ricordo dove alloggiava precisamente il prurito, ma certo quando il sole declinava all’orizzonte si scatenava un insopprimibile desiderio di grattarsi a sangue un po’ dappertutto.

I vecchi che avevano fatto la guerra (la Prima, per intenderci) rievocavano le invasioni di pidocchi che in certe trincee erano più fastidiosi e più pericolosi degli austriaci. La malattia era incredibilmente contagiosa. Si diceva perfino che fosse un’avvisaglia di quello che ci sarebbe toccato con la guerra chimica. Abitavamo in via Deffenu, un tratturo di polvere e sassi. Da quel Sarcoptes si salvarono in pochi. Tutta la mia famiglia fu colpita. Dicevano che la causa era la sporcizia. Mia madre, sacerdotessa di ferro della trinità Spazzola-Sapone-Varechina, se ne offese a morte. Passavamo ore (le ore della luce, quelle meno assediate) a studiare medicine e rimedi. Non so chi un giorno convinse mio padre a fare una cosa che chiamavano «la sfumenta».

Si trattava di chiudere il malato (in altre parole, il rognoso) in una stanza da bagno, versare dello zolfo nella vasca di acqua bollente, aspettare che una nube densa e giallastra distruggesse il nemico. A mio padre quella nube ricordava, nel colore, nella densità e nell’acre lezzo le nuvole di gas asfissiante della Grande Guerra. Così, profittando che era richiamato, fece l’esperimento della sfumenta indossando precauzionalmente la maschera antigas che aveva in dotazione. Andò in avanscoperta. Si chiuse nella stanza da bagno, riempì la vasca di acqua bollente, versò lo zolfo: la famiglia attendeva all’esterno, in trepida invocazione del miracolo. Dalla vasca si levò alta la nuvola: ma, a quanto risultò, la maschera antigas era difettosa. Così, prima di morire soffocato, mio padre spalancò con un calcio la porta e uscì correndo, in maglia della salute e mutande di quelle che a Sassari chiamano «a maniche lunghe». Per poco non morimmo anche noi, disintegrati dalle risate.
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