Pensieri segreti per Marisa nell’autobus della notte
Un estratto del romanzo di Francesco Abate: “Un posto anche per me”
Anticipiamo, per gentile concessione dell' editore, un brano del nuovo libro di Francesco Abate, "Un posto anche per me" (Einaudi , 16, 50 euro, 200 pagine). In questi giorni in libreria.
di FRANCESCO ABATE
Chiunque ha un passato.
Anche io. Un passato piú lontano e uno
piú vicino. Poi c'è il pane di tutti i giorni.
In questo istante sono quello sull'autobus della notte.
Seduto nell'ultima fila. Su un sedile grigio e rosso.
Freddo e duro.
Si vede tutto da questo posto. Chi sale, chi scende.
Si domina e non si corrono pericoli. Spalle coperte. Una
buona regola.
Si va dal punto A al punto B. Dal capolinea a una fermata.
Da una fermata a un'altra fermata. Cosí per tutto il turno di lavoro.
Stanotte sono quello con lo sguardo dritto, avvolto dalla luce dei lampioni che si riflette sulla vetrata di sicurezza.
Si può spaccare con il martelletto, quel vetro lí. Lo sai,
Marisa?
In caso d'incendio, incidente, incivili a bordo, intoppi alle
portine. Se le portine si bloccano e si resta intrappolati senza via di fuga, si prende il martelletto e si dà il colpo giusto, in un punto preciso. Il vetro volerà via, in mille e mille pezzi.
Sarebbe stato bello, nella vita, avere quel martello almeno dieci volte. No, forse dodici. Per aprire un varco e fuggire via dai guai.
I ricordi sono i miei compagni di viaggio. A volte se ne stanno sul fondo, altre volte tornano a galla come le patate di mare. Dove stanno le patate di mare prima di andare a riposare sulla spiaggia? Prima di essere prese a calci, lanciate per scherzo o usate per fare il naso delle sculture
di sabbia? Nessuno lo sa. Cosí è per i pensieri del passato.
Stanno lí appostati, come cane Tobia, ma non puoi prevedere quando e perché torneranno a morderti.
Nel passato piú lontano, quando si è presentato il primo
problema, non sapevo neppure camminare benissimo.
O forse sí. Comunque, di scappare veloce non ero capace.
Né di inseguire chi mi aveva piantato lí, a casa di Nonna
Vecchia.
Non ho saputo tirare quella ragazza per la gonna e dirle
parole semplici nella sua lingua un po' dura. Cosí dura
che mentre la parli sembra che hai le pietre in bocca e devi
schiacciarle per poter dire: «Perché mi lasci qui?».
Questo avrei voluto chiedere alla ragazza: Perché mi lasci qui?
Ecco qua il primo ricordo del passato piú lontano.
Torna a galla dal fondo dei vecchi pensieri mentre l'autobus si svuota e nessuno alle fermate sale piú. Il resto,
prima di quel momento, è buio totale. Come quando il bus
lascia il centro e va verso la periferia. Anche strizzando gli occhi, seduti dentro, si vede poco di quello che c'è fuori.
Anche se metti la mano a cucchiaio e poggi la fronte al finestrino o asciughi con la cuffia di lana le gocce sul vetro appannato dalla condensa.
Sfreghi e sfreghi, ma inutilmente.
Non si capisce nulla, non si vede nulla. Come sul traghetto
che solca il mare la notte. Affacciarsi dai ponti non serve mica: mare nero, cielo nero. Buio pesto, visuale limitata.
Mentre giú, in acqua, i pesci che sbucano dalle ondine ti spiano e dicono: «Ecco un altro balosso che guarda ma non vede».
E ridono.
E cantano:
Cambara! Cambara! Cambara e maccioni!
Pisciurrè! Sparedda e mummungioni!
Ti vedono i pesci come se guardassero la televisione. Tu sei quello con lo sguardo perso, avvolto dalla luce azzurra dei ponti arrugginiti e umidi dei traghetti.
Loro sono quelli che cantano spensierati la nostra canzoncina di Carnevale, con i nomi di tutti gli abitanti dei mari e degli scogli sardi.
Lo stesso accade sul mio autobus la sera. Anche le signore e i signori, i ragazzi e le ragazze che stanno per strada a guardare chi passa su un bus illuminato dicono: «Ecco un altro sfigato che chi sa dove se ne va tutto solo a quest'ora».
Parlano di uno con la guancia appiccicata al vetro che si fa trasportare da un punto A a un punto B di questa città.
Un ragazzo grasso e solo. Che poi sarei io. La vita la comprendi solo se la osservi da fuori. Da dentro è tutto piú difficile. Vero, Marisa?
La vita la capisci meglio quando è passata. Mentre ci sei in mezzo, non ci riesci quasi mai. Io la mia vita la capisco quando ripenso a me stesso bambino.
E mi rivedo come se fossi un altro che non sono piú.
Vedo il passato, che ha inizio una mattina d'estate, come lo videro i vicini dell'antico rione.
Una ragazza alta e bionda che arrivava a casa di Nonna Vecchia, in piazzetta: un quadrato chiuso da tetti bassi, i balconi fioriti e l'ombra che gira intorno al campanile della chiesa.
La scrutarono con gran curiosità, con malizia. E compresero
tutto da subito. Indossava un'ampia e lunga gonna a fiori, una camiciola bianca in pizzo stretta sui fianchi.
Teneva per mano me, un bambino grassottello. I tacchi
dei suoi zoccoli facevano un gran baccano sul selciato lungo
e stretto del vicolo. Ecco perché tutti si affacciarono dalle vecchie case, un po' ammuffite e un po' sberciate, e chi era già per strada sistemò meglio la sedia di paglia per godersi la scena. Lei parlò con la sua voce tritasassi, ma Nonna Vecchia, sull'uscio, non la capí bene e chiamò Nonna Giovane, che chiamò Nonno. Solo dopo che le fecero ripetere piano piano le cose, la invitarono a entrare.
Fuori, nella piazzetta, si udivano le parole esatte di quella mattina: le cattive per convincere, le buone per trovare un compromesso. Chi spiava le finestre aperte di quella casa vide molta baraonda e sentí le urla e le maledizioni. La calma, i ragionamenti e ancora le grida. Nonna Vecchia che dava le colpe a Nonna Giovane, sua nuora:
«Unu dimoniu! Hai cresciuto un demonio».