Mario Segni boccia la riforma: «Un ritorno agli anni ’80»
Lo storico leader referendario contro la nuova legge elettorale
I franchi tiratori hanno affossato l’accordo sulla legge elettorale. Ormai il suo destino è appeso a un filo. Il Partito democratico accusa i 5 Stelle di tradimento, i grillini se la prendono con il Pd. E intanto la legge ritorna in Commissione affari costituzionali e le elezioni vanno dritte verso la scadenza naturale. Un tunnel di cui per ora non si riesce a vedere l’uscita. Un caos che mette a serio rischio il ritorno al proporzionale. Cosa, quest’ultima, che non dispiace per nulla a Mario Segni, il padre del maggioritario. Il leader referendario che nei primi anni Novanta traghettò l’Italia dalla Prima alla Seconda repubblica. Per Segni l’accordo a quattro sulla legge elettorale, se dovesse resistere agli agguati dei franchi tiratori, sarebbe una sciagura per il Paese. Un tuffo in un passato che il leader referendario pensava ormai archiviato. Un ritorno a quegli anni Ottanta dominati dai partiti che gli italiani avevano liquidato con una valanga di sì ai referendum abrogativi del 1991 e 1993. Una posizione che Segni condivide con altri supporter del maggioritario come Romano Prodi, Walter Veltroni e Arturo Parisi. Per il leader referendario con il via libera all’accordo Renzi-Berlusconi-Grillo-Salvini la volontà dei cittadini verrà sacrificata a favore di quella dei capi partito e l’Italia ritornerà a essere la patria dell’instabilità politica.
Professor Segni, lei è il padre del sistema maggioritario: che giudizio dà sulla legge elettorale all’esame del Parlamento?
«È una pessima legge, perché non si cambia solo il sistema elettorale ma l’intero sistema politico. È un’inversione di rotta a 360 gradi rispetto a quello che era stato varato nei primi anni Novanta con i due referendum più votati della storia della Repubblica. Tutta la marcia riformistica di quegli anni portava verso la stabilità dei governi di legislatura, verso il riavvicinamento tra cittadino ed elettore, verso la cosiddetta politica governante. L’Italia passò dalla serie B alla serie A delle grandi democrazie europee, e il successivo passo sarebbe dovuto essere il presidenzialismo. Invece...»
Cosa è accaduto?
«Improvvisamente, in pochi giorni, si è deciso di tornare al proporzionale, all’Italia ballerina, al Paese della instabilità. Con i cittadini che si sentiranno espropriati del potere di scegliere. E dopo il Parlamento, statene certi, cambierà tutto anche per i sindaci e i governatori».
In che senso?
«Una volta che viene cambiato un sistema elettorale si cambiano anche gli altri. Non credo che questi partiti lasceranno l’elezione diretta per Comuni e Regioni».
Dopo la vittoria del No al referendum del 4 dicembre lei invitò Matteo Renzi a puntare ancora sul maggioritario. Il segretario del Pd ha invece preso un’altra direzione.
«Sono molto deluso da Renzi. Io capisco che un partito debba prendere atto di quella che è la situazione del momento, ma mi aspettavo che lui tenesse alta la bandiera del riformismo. Anzi, ero convinto che non appena si fossero presentate le condizioni, magari nella prossima legislatura, avrebbe condotto una nuova battaglia per il presidenzialismo sul modello francese. Questo era stato anche il suggerimento di Giuliano Ferrara, ma purtroppo Renzi ha deciso di prendere un’altra strada».
Ma c’è qualche elemento di questa legge che, secondo lei, si può salvare?
«No, perché io non salvo proprio il principio che sta alla base di questa legge elettorale, ovvero il proporzionale. Questa riforma assegna un potere enorme ai capi partito che arriveranno a nominare più della metà del Parlamento».
Il 63 per cento per l’esattezza, contro il 50 del sistema tedesco.
«Davanti a questa legge meglio non parlare di sistema tedesco. È un’altra cosa. In Germania c’è la sfiducia costruttiva, c’è una sola Camera che decide. E soprattutto ci sono i partiti che hanno forza e tradizione e sono profondamente inseriti nel Paese. In Italia, invece, accade il contrario, perché oggi siamo davanti a una profonda crisi dei partiti, che ormai sono solo delle tribù dei capi».
Sembra molto pessimista sul futuro dell’Italia...
«La mia paura è l’instabilità continua e perenne. Il rischio di una situazione simile a quella della Spagna ma con effetti ancora più devastanti. Mi auguro davvero che questi miei timori non si realizzino, ma sono molto preoccupato».
Se il 4 dicembre avesse vinto il Sì lo scenario sarebbe stato diverso.
«Diversissimo. Ci sarebbe stata una spinta in direzione totalmente opposta rispetto a oggi. Ma tutto questo, parlo della vittoria del No, non giustifica che dentro il Parlamento o tra la classe politica ci sia una volontà quasi unanime di cancellare un sistema che stava dando i suoi frutti. Non si è sentita una voce discorde. Tutto ciò lo trovo sconcertante e avvilente».
In Sardegna sono stati disegnati collegi elettorali con confini molto estesi che non tengono conto dell’identità e della storia dei territori.
«Non ho studiato in maniera approfondita, ma anche su questo punto la fretta è stata una cattiva consigliera».
Lo sbocco naturale di questo sistema elettorale sembra essere la grande coalizione tra Renzi e Berlusconi.
«Ora come ora è impossibile dirlo con certezza, non ho elementi per dire come finirà. L’unica cosa sicura è che sarà davvero difficile governare».
Mentre l’Italia va verso il proporzionale lei continuerà a lottare per il sistema maggioritario?
«Ormai bisogna puntare più in alto, il maggioritario non basta più. All’Italia serve il presidenzialismo». ©RIPRODUZIONE RISERVATA