Federica uccisa con 10 coltellate, il marito: "Sono uno schifoso assassino"
Mauro Lissia
Giovanni Murru è stato condannato a trent'anni di reclusione per aver ucciso la giovane moglie, madre di tre bambini
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CAGLIARI. Ha ucciso la moglie con dieci coltellate alla gola, non ci sono attenuanti se non lo stato di delirio provocato dalla gelosia: per Giovanni Murru (47 anni) di Iglesias il conto della giustizia fa trent’anni di carcere, che il gup Ermengarda Ferrarese gli ha inflitto applicando lo sconto della pena previsto per il giudizio abbreviato. Senza quello sarebbe stato ergastolo. Nessun dubbio sui fatti, zero incertezze anche sul movente che ha spinto Murru ad assassinare Federica Madau (32 anni) da cui si era separato due mesi prima del delitto: è stato lui stesso a confessarlo, non reggeva l’addio della moglie.
Tutto in pochi minuti, quella sera del 2 marzo dell’anno scorso: Murru aveva trascorso la giornata coi figli di quattro, sei e nove anni. Alle 20.30 la telefonata alla moglie: «Vieni a prenderli». Lei è arrivata, lui l’ha afferrata per i capelli e l’ha trascinata oltre il portoncino di casa, fino al sottoscala. Dopo ha impugnato un grosso coltello che stava sulla lavatrice e con quello l’ha colpita una decina di volte, di punta e di taglio, sempre alla gola e al collo. Sangue dappertutto, la donna riversa immobile sulle scale.
Il seguito è polizia, arresto, autopsia, la confessione postuma di un uomo accecato dalla prospettiva che la moglie potesse avviare una relazione effettiva con un altro.
Non era la prima volta che i due litigavano: nei mesi precedenti c’erano state denunce, carabinieri, minacce. Un rapporto minato dalle ossessioni di Giovanni Murru e finito nel peggiore dei modi possibili. Forse ci sarebbe spazio per il rimpianto, forse qualcosa si sarebbe potuta fare per difendere la donna da quella furia umana, che - si sapeva - non lesinava botte e atteggiamenti violenti. Ma si spera sempre che non si arrivi al sangue, poi però il sangue arriva e si parla di femminicidio.
Al processo, appena prima che il pm Danilo Tronci esponesse la richiesta di condanna per omicidio aggravato, l’uxoricida ha fatto consegnare dal difensore Gianfranco Trullu una lettera dove si fa strada un’idea vaga di pentimento, attraverso la coscienza di quello che ha fatto: «Quel maledetto giovedì dovevo venire in chiesa e invece mi sono trasformato in bestia feroce, uno schifoso assassino». Poi l’ammissione, dove traspare la ragione, se una ragione può esserci, del suo gesto assassino: «Se non mi amava più e se ha fatto quello che ha fatto sicuramente in parte è colpa mia, forse non sono riuscito a darle ciò che voleva, forse non sono riuscito ad amarla come desiderava». Quindi il richiamo ai figli, alla consapevolezza che senza di lui sarebbero stati finalmente bene, seguiti e amati. Ma senza più madre e padre.
Tutto in pochi minuti, quella sera del 2 marzo dell’anno scorso: Murru aveva trascorso la giornata coi figli di quattro, sei e nove anni. Alle 20.30 la telefonata alla moglie: «Vieni a prenderli». Lei è arrivata, lui l’ha afferrata per i capelli e l’ha trascinata oltre il portoncino di casa, fino al sottoscala. Dopo ha impugnato un grosso coltello che stava sulla lavatrice e con quello l’ha colpita una decina di volte, di punta e di taglio, sempre alla gola e al collo. Sangue dappertutto, la donna riversa immobile sulle scale.
Il seguito è polizia, arresto, autopsia, la confessione postuma di un uomo accecato dalla prospettiva che la moglie potesse avviare una relazione effettiva con un altro.
Non era la prima volta che i due litigavano: nei mesi precedenti c’erano state denunce, carabinieri, minacce. Un rapporto minato dalle ossessioni di Giovanni Murru e finito nel peggiore dei modi possibili. Forse ci sarebbe spazio per il rimpianto, forse qualcosa si sarebbe potuta fare per difendere la donna da quella furia umana, che - si sapeva - non lesinava botte e atteggiamenti violenti. Ma si spera sempre che non si arrivi al sangue, poi però il sangue arriva e si parla di femminicidio.
Al processo, appena prima che il pm Danilo Tronci esponesse la richiesta di condanna per omicidio aggravato, l’uxoricida ha fatto consegnare dal difensore Gianfranco Trullu una lettera dove si fa strada un’idea vaga di pentimento, attraverso la coscienza di quello che ha fatto: «Quel maledetto giovedì dovevo venire in chiesa e invece mi sono trasformato in bestia feroce, uno schifoso assassino». Poi l’ammissione, dove traspare la ragione, se una ragione può esserci, del suo gesto assassino: «Se non mi amava più e se ha fatto quello che ha fatto sicuramente in parte è colpa mia, forse non sono riuscito a darle ciò che voleva, forse non sono riuscito ad amarla come desiderava». Quindi il richiamo ai figli, alla consapevolezza che senza di lui sarebbero stati finalmente bene, seguiti e amati. Ma senza più madre e padre.