La Nuova Sardegna

L’inchiesta

Stefano Dal Corso morto in carcere a Massama, la Procura riapre le indagini

di Claudio Zoccheddu
Stefano Dal Corso morto in carcere a Massama, la Procura riapre le indagini

La sorella Marisa: «E’ stato pestato in cella dai secondini, non può essersi suicidato»

20 ottobre 2023
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Sassari Non ci hanno creduto nemmeno per un attimo. Stefano Dal Corso non poteva essersi suicidato. Una certezza, quella dei familiari del detenuto morto il 12 ottobre del 2022 in una cella del carcere di Massama, a Oristano, che è cresciuta con il passare dei giorni. Ieri, poi, la conferma di non essere soli: la Procura di Oristano ha aperto un nuovo fascicolo sulla morte del 42enne romano, anche se contro ignoti e senza alcuna ipotesi di reato. Per il momento. Negli ultimi giorni, infatti, sono venute a galla nuove prove: una testimonianza diretta, un audio registrato da Marisa Dal Corso (sorella di Stefano, ndr), e un libro consegnato a casa Dal Corso da due finti corrieri Amazon. Elementi che la famiglia spera possano convincere i pm a disporre l’autopsia sul corpo di Stefano, mai effettuata nonostante le tre richieste formali mosse dall’avvocata di Marisa Dal Corso, Armida Decina. E dire che sarebbe bastata proprio l’autopsia a fugare ogni dubbio, in un senso o nell’altro.
Le testimonianze «Per tre volte abbiamo chiesto che venisse effettuata l’autopsia – ha detto ieri Marisa Dal Corso dopo la conferenza stampa andata in scena ieri alla Camera dei deputati – e per tre volte abbiamo ricevuto risposte negative. Avevamo tenuto segrete le testimonianze che abbiamo raccolto, per tutelare i detenuti che le hanno fornite, ma davanti a questa situazione siamo stati costretti a tirarle fuori». E quello che Marisa racconta potrebbe avere un enorme peso specifico in una vicenda che, fino a ieri, aveva troppe zone d’ombra. Marisa racconta ciò che è stato riferito da un detenuto che, in quei giorni, era in una delle celle dell’infermeria del carcere di Massama, dove era recluso anche Stefano: «Che era appena arrivato a Massama per partecipare a un’udienza al tribunale di Oristano ed era considerato “in transito” e dunque, come da prassi del carcere di Massama, detenuto in infermeria. Il nostro testimone dice che Stefano, il giorno prima di morire, ha litigato con gli operatori sanitari perché chiedeva che venisse fornita assistenza ad un altro detenuto, diabetico, che da cinque giorni non riceveva cure adeguate».

A quel punto, il dialogo sarebbe degenerato: «Stefano chiedeva le medicine – dice Marisa – e mia fratello era un tipo molto testardo. Le guardie gli dissero di calmarsi e di ricordare che in quel momento non si trovava a Roma ma in Sardegna, dove in sostanza comandavano loro e lui non aveva diritto di parola». Le voci si alzano, il clima si scalda: «Poi le guardie entrarono nella sua cella, chiusero il “blindo” (la porta di ferro che si aggiunge alle sbarre, ndr) e lo pestarono a sangue. Il testimone dice che le urla di Stefano si sentivano fino alla cucina».

È l’11 ottobre e Stefano è ancora vivo. Il racconto di Marisa prosegue e arriva al 12, il giorno in cui Stefano sarebbe morto: «Il giorno dopo gli altri detenuti lo sentono urlare ancora. Stefano chiede di chiamare a casa e di avere l’assistenza della psicologa. Le guardie non intervengono e sostanzialmente non fanno nulla. Allora si riaccende una discussione animata, lui chiede spiegazioni, alza la voce, lo sente tutto il carcere. Poi, dopo qualche ora, muore».
Fino a qua, Marisa racconta quello che le è stato riferito dai testimoni. Parole che dovranno essere verificate dai magistrati e potrebbero convincerli a disporre l’autopsia che la famiglia chiede ormai da più di un anno. Il resto, invece, è stato appurato: «Quello che è accaduto a Stefano dovrebbe essere stato ripreso dalle telecamere dell’infermeria del carcere di Massama. Quel giorno, però, le telecamere non funzionavano. Una cosa che può capitare, nonostante la tempistica sia perlomeno sospetta – continua Marisa – ma che dovrebbe essere riportata nei documenti del carcere che segnalano, che ne so, un malfunzionamento, un intervento tecnico, un guasto. Documenti che ovviamente abbiamo richiesto ma che non ci sono mai stati consegnati».

Marisa ha una spiegazione: «Non li hanno comunicati perché non esistono». Ciò che invece esiste, ed è sempre più forte, è la convinzione che Stefano non si sia suicidato: «La psicologa del carcere dice di avere avuto un colloquio con Stefano due giorni prima di morire. L’esito lo riporta per iscritto, certificando di aver trovato Stefano sorridente, scherzoso, solare e senza alcun problema di autolesionismo. Ed è così che era, un vulcano di energie, uno che frequentava i corsi del carcere per costruirsi una vita appena libero. Faceva programmi con la sua compagna, le scriveva di rispondere a Rebibbia perché il 14 ottobre sarebbe ritornato a Roma. Era andato a Oristano anche per poter incontrare la figlia. Aveva problemi di droga, è vero, ma non voleva morire».

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