L’archeologo Rubens D’Oriano: «La multuculturalità è un valore come 2000 anni fa»
La storia di Olbia è fatta di scambi e stratificazioni. Oggi come in epoca romana. L’accoglienza è un elemento da sempre centrale È un insegnamento per il futuro
Le mani nella terra e la mente nel sottosuolo. Ma anche una visione piuttosto chiara di ciò che accade lassù in superficie, cioè nelle strade e nelle case della città moderna. Rubens D’Oriano, fine intellettuale e storico responsabile della Soprintendenza locale, mette subito in chiaro una cosa: «Sono un archeologo, non un sociologo». Ma forse è proprio la sua grande conoscenza del passato a permettergli di andare oltre la disciplina e a ragionare in maniera più lucida e puntuale sull’Olbia di adesso. E quindi sulle sue dinamiche e sulle sue trasformazioni, ma anche sulle radici culturali di una città che ha scoperto di essere quasi del tutto diversa da quella di una manciata di decenni fa. Tra ondate migratorie, espansione urbanistica e un grande dinamismo demografico ed economico, Olbia è cambiata ed è oggi l’unica città in Sardegna che continua a crescere e a vedere il segno più. Ed è proprio in questo momento storico che l’archeologo Rubens D’Oriano individua importanti punti di contatto tra l’Olbia odierna e il vecchio insediamento romano affacciato sul suo florido porto. Un elemento su tutti: la multiculturalità. «Se in epoca romana sbarcavi a Olbia, potevi trovare un mercante siriano o un legionario gallico – dice D’Oriano, in pensione da quattro anni –. La storia dei porti del Mediterraneo è questa, da sempre. E Olbia, naturalmente con le dovute differenze, è tornata a essere quella che era diciassette secoli fa».
Quali radici È da quando Olbia ha superato i perimetri della città romana, nel Novecento, che sono stati in qualche modo riallacciati alcuni legami con il passato. «Da poco ho partecipato a un incontro organizzato dal Labint – dice D’Oriano –. Sono stati illustrati i dati relativi all’immigrazione di oggi. I numeri sono alti, ma non dimentichiamoci che, prima ancora, Olbia ha vissuto l’immigrazione interna. Con il boom del turismo, la città ha attirato tantissime persone arrivate da Buddusò, Luogosanto e Alà dei Sardi, solo per citare tre paesi. Nel giro di pochi decenni Olbia si è così quadruplicata». Una città che, allo stesso tempo, considerato il mix di provenienze, si sarebbe però ritrovata con radici e certezze profondamente minate. Ma per Rubens D’Oriano le cose non sono andate esattamente così. Per questo, anche nei convegni e nelle conferenze, l’archeologo si rivolge a chi sostiene, spesso con un po’ di nostalgia, che Olbia non sia più la stessa, che abbia in qualche modo perso gli elementi e i tratti distintivi che la caratterizzavano fino a qualche tempo fa. «Io, invece, dico che adesso Olbia è di nuovo se stessa – commenta D’Oriano –. Il profilo culturale della città è infatti l’accoglienza. L’identità di Olbia è quella di essere multiforme, ma non intendendo certo un qualcosa di anonimo o non identitario. Io la vedo così». L’archeologo quindi prosegue: «Pensiamo a una persona che si chiama Derosas, Deiana o Degortes, che sono tra i cognomi più diffusi in città: basta guardare la madre o andare indietro di una sola generazione per trovare qualcuno in famiglia originario di altri luoghi. La storia di Olbia è dunque fatta di stratificazioni, aperture, contatti, multietnicità e multiculturalità. È quindi fatta di scambi di uomini e di idee. Sono dinamiche che si sono ripresentate dopo numerosi secoli». Differenze culturali e di provenienza che, secondo lo studioso, creano valore e dinamismo, cioè la vera forza di oggi. Per questo, un recente saggio dello stesso D’Oriano si conclude così: «La vicenda di Olbia antica e odierna sottolinea il valore del rapporto interculturale come risorsa primaria, prezioso insegnamento per questo presente e per un futuro già incombente».
Venere e Maria Olbia è cambiata e cresciuta, ma molte sue tradizioni, in ogni caso, non sono certo morte. Basti pensare alla grande partecipazione alle feste campestri e a quella patronale. Si è invece da poco ridimensionata, con il tramonto delle attività dei pescatori nel rione di Sa Rughe, la festa di San Giovanni e della Madonna del Mare. Una celebrazione che, nonostante importanti interruzioni nei secoli, affonda le sue radici proprio nell’epoca romana. «Non sono religioso e, per questo, partecipo poco alle feste – spiega D’Oriano –. Però posso raccontare un fatto che è poi diventato un articolo scientifico. Durante lo scavo del tunnel, quando vennero trovate le navi romane, trovammo anche del materiale legato al culto di Venere. Mi ero fatto l’idea che quei ritrovamenti non arrivassero dalle navi in porto ma da terra. Poi ho notato un manifesto che annunciava la festa della Madonna del Mare. E mi sono anche ricordato che una carta catastale del 1848 indicava, vicino all’attuale municipio, la presenza di due chiesette: una dedicata a Sant’Antonio e l’altra a Santa Maria del Mare». Due chiese, poi demolite, che a loro volta sorgevano al posto di due templi romani, successivamente individuati. «E quindi mi sono detto: vuoi vedere che esiste una continuità? Venere, infatti, era la divinità più gettonata da chi andava per mare – spiega D’Oriano –. E gli olbiesi, nonostante non esista più la chiesa, ancora oggi fanno la processione a mare in onore della Madonna. La sovrapposizione dei luoghi di culto, comunque, è un qualcosa che accade molto spesso. Restando in città, pensiamo alla chiesa di San Paolo, che sorge dove c’era il tempio di Ercole-Melqart, e a quella di San Simplicio, dove esisteva invece il tempio di Cerere».
La memoria Tra le critiche più dure rivolte a Olbia c’è quella di non essere riuscita a valorizzare in maniera adeguata il suo passato. «È vero, fino agli anni Settanta è stata poco attenta – commenta l’archeologo, maddalenino e arrivato in città nel 1984 –. La Soprintendenza, a quei tempi, qui quasi non esisteva. Poi fu per fortuna potenziata. E sia io che i colleghi che mi hanno preceduto abbiamo sempre sentito racconti di ciò che accadeva prima a Olbia, per esempio quando venne costruito il Palazzaccio. Ricordi, anche molto freschi, di ritrovamenti di cui però non esiste traccia. Interventi svolti con grande allegria, insomma. Ma non ci vedo cattiveria, piuttosto ignoranza. Però devo dire che, negli anni, le cose sono man mano cambiate. Come Soprintendenza abbiamo fatto grande sensibilizzazione. Quando abbiamo trovato qualcosa lo abbiamo sempre mostrato ai cittadini: “Ecco cosa c’è sotto di voi”. Lo scavo del tunnel, poi, ha fatto la differenza. Ritengo comunque di essere sempre stato ragionevole. Lo sviluppo urbano deve andare avanti e ho cercato di trovare un equilibro con la tutela del patrimonio. Non sono mai stato un talebano, con Comune e Autorità portuale c’è sempre stata collaborazione».
Le soddisfazioni Per decenni alla guida della Soprintendenza locale, a Rubens D’Oriano si devono grandi ritrovamenti e importanti scoperte. È quindi anche merito suo se il passato olbiese oggi appare così ricco e in molti casi stupefacente. Curioso, dunque, sapere quali siano le più grandi soddisfazioni accumulate in carriera. «Per un archeologo, a volte, è strepitoso quello che per un profano non lo è per niente – dice –. Per esempio, posso parlare dei cocci greci ritrovati in via Cavour e nello scavo di San Simplicio. Dico questo perché, inizialmente, al fatto che Olbia fosse greca non ci credevano mica tutti. Quei ritrovamenti, invece, lo hanno dimostrato. È rimasto molto poco del periodo greco, perché i cartaginesi rasero al suolo l’intero abitato precedente. Sotto ci sarà sicuramente altro, ma per trovarlo ci vuole fortuna. E poi, tra le altre soddisfazioni, posso sicuramente nominare la testa di Ercole. Difficile immaginare di trovare sott’acqua la testa di una statua di quella qualità». Se solo si potesse, a Rubens D’Oriano piacerebbe poi scavare in due punti ben precisi della città. «Sotto San Paolo e sotto San Simplicio – confessa –. Sono i luoghi di culto principali della città che non hanno mai smesso di vivere, dall’antichità fino a oggi. Ma è molto difficile. Così come per le terme: sotto le case ci sono i mosaici, ma non possiamo certo demolire la città di oggi».
L’antico teatro Sembra quasi fatto apposta. L’Olbia di oggi non ha ancora un teatro – praticamente un unicum – e nessuno è mai riuscito a trovare neanche il teatro della città romana. Non è detto, però, che non esistesse. Anzi. Considerate le dimensioni e l’importanza della città ai tempi dell’impero, il fatto che a Olbia ci fosse un teatro è molto probabile. Anche se non è stato mai individuato. Rubens D’Oriano, ovviamente, ci ha pensato più volte. «Credo che ci sia – commenta l’ex responsabile della Soprintendenza locale –. E andrebbe cercato in due punti, ma ricordiamoci che sopra c’è sempre la città. Quindi non è per niente semplice». Una premessa: «I romani e i greci, per risparmiare, costruivano i loro teatri dove esisteva un certo dislivello del terreno. Dunque ricavavano la cavea adattandosi alla roccia». E quindi eccoli i luoghi dove, secondo l’archeologo, potrebbe nascondersi il teatro dell’antica Olbia. Il primo è l’area compresa tra la chiesa di San Paolo (foto) e via delle Terme. «C’è un dislivello e, tra l’altro, siamo anche vicini a un santuario. Un teatro ci poteva stare bene» dice D’Oriano. Poi il secondo punto: la zona dell’istituto di San Vincenzo e di via Regina Elena. Anche qui per via del dislivello. «Ma sono deduzioni – specifica l’archeologo –. Non posso certo sapere se sia realmente lì sotto. Altro discorso, invece, per altri edifici. Pensiamo alle terme: ci sono e abbiamo anche la planimetria».
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