La Nuova Sardegna

La crisi

In 11 anni 4.500 negozi chiusi nell'isola

di Roberto Petretto
In 11 anni 4.500 negozi chiusi nell'isola

Commercio in difficoltà: il tasso di mortalità nel 2023 è stato del 4,9%. I settori più colpiti: libri e giocattoli, mobili e ferramenta, abbigliamento

18 febbraio 2024
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Sassari Un dato confuso tra i tanti, che però è indice, anzi conferma, di una situazione di estrema sofferenza di un settore che, sino a non molti anni fa, era tra i più importanti dell’isola: il commercio al dettaglio nel 2023 ha fatto registrare il più alto tasso di mortalità delle aziende, pari al 4,9 per cento. In un’isola che ha visto chiudere nell’anno passato ben 6.330 aziende, il prezzo più alto di questa morìa l’hanno pagato i piccoli negozi, magari proprio quelli situati nelle zone centrali della città.

Ma non si tratta di una tendenza che si è manifestata solo negli ultimi anni. Secondo un’analisi di Confcommercio, tra il 2012 e il 2023 in Italia sono spariti oltre 111mila negozi al dettaglio e 24mila attività di commercio ambulante. La Sardegna è una delle regioni più colpite, con una perdita di 4.500 negozi (-17,5%) e 1.200 ambulanti (-23,5%).

Le tipologie di negozi più in crisi sono quelle tradizionali, come libri e giocattoli (-35,8%), mobili e ferramenta (-33,9%) e abbigliamento (-25,5%). Al contrario, sono aumentate le attività di alloggio (+42%) e ristorazione (+2,3%), così come quelle di farmacie (+12,4%) e computer e telefonia (+11,8%).

Le cause principali della chiusura dei negozi sono la crisi economica, la crescita dell’e-commerce, la desertificazione dei centri storici e la concorrenza delle imprese straniere.

Sebastiano Casu, presidente di Confcommercio, conferma le difficoltà descritte dai numeri. E rincara la dose: «La situazione è seria. Il comparto del terziario è da tempo sotto attacco. Problemi che hanno origine lontana, in una liberalizzazione selvaggia che ha creato una giungla, con aperture ovunque, orari ad libitum e iniziative estemporanee. C’è stata una crescita abnorme di esercizi rispetto alle necessità di allora: avviare un’attività per molti è stata un’occasione per sbarcare il lunario, una soluzione alla disoccupazione».

Il mondo del commercio è cambiato: «Oggi bisogna fare fronte a impegni e concorrenza, interna e esterna, dove non vince chi è più professionale. E poi c’è il mare di offerte che arrivano da internet. Tutto questo ha portato alla resa dei conti che oggi vediamo realizzarsi».

Il presidente Casu insiste sull’eccesso di liberalizzazione: «Non si possono aprire nuovi locali se c’è già abbondanza. È stato consentito di tentare la fortuna, ma non bisogna tentare la fortuna, bisogna essere più preparati che in passato, oggi l’insufficienza, l’impreparazione non premiano. Oggi ci sono molti negozi di cinesi che drenano capitale con risorse illimitate per allestire strutture distributive più grandi ed efficienti di quelle degli altri concorrenti. Oggi un piccolo negozio di maglieria destinato al fallimento».

Secondo Casu «il discorso vale anche per l’alberghiero dove esiste una concorrenza da B&B non strutturati, da tanti piccoli esercizi spesso scoperti e anche in nero: per intenderci, se il giro d’affari ufficiale è di 100, il nero è 50»

Cosa fare? «Bisogna tornare ai fondamentali: le amministrazioni comunali, con dei piani commerciali, devono dare una regolata all’eccessivo liberismo. Quando si può fare tutto e il contrario di tutto è un mondo senza regole che fa vincere non il più professionale, ma quello che ha più pelo sullo stomaco. Torniamo quindi ai piani di commercio, alle commissioni che mettevano insieme le varie esigenze commerciali, sindacali, urbanistiche. Una volta si facevano anche gli esami per chi voleva svolgere un’attività. Oggi tutti nasciamo bravi, salvo poi saltare come birilli».


 

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