Gustavo Giagnoni, il mito dell’olbiese col colbacco
Cresciuto nell’Olbia calcio, trascinò il Mantova in serie A. Poi le panchine di Torino, Milan, Roma e Cagliari
Olbia. Le sue passeggiate avevano sempre un doppio sfondo. Il fiume Mincio quando si trovava a Mantova, e Tavolara quando tornava nella sua Olbia. C’è una definizione, nel mondo del calcio, per parlare degli allenatori come lui. Si dice: un sergente di ferro. Carattere forte, «l’allenatore col colbacco» titolano almeno un centinaio di articoli online, ma questa è un’altra storia. Gustavo Giagnoni è stata la stella più lucente dell’Olbia calcistica. Con la maglia bianca – erano i primi ’50 – ha cominciato la sua carriera da giocatore, come difensore, ma i successi e la fama sono arrivati come allenatore. Mantova, Torino, Milan, Roma, Cagliari e tante altre.
La carriera. Mantova è diventata presto il suo porto sicuro. Dopo aver vestito la maglia bianca, stavolta dei lombardi, ha cominciato l’avventura in panchina lì, dove nel giro di tre stagioni, dal 1969 al 1971, conquistò la promozione in serie A. Da quel momento il grande calcio mise gli occhi su Giagnoni, allenatore di spessore, di grande conoscenza calcistica ma soprattutto dalla grande carica emotiva. Per i giocatori e per i tifosi, e non è solita retorica, entrava nel cuore. Lo dimostra, per esempio, l’attaccamento che ancora oggi dopo decenni provano nei suoi confronti dalle parti di Torino. La Torino sponda granata, che ha allenato dal ’71 al ’74, forse è il periodo più fortunato per Giagnoni. A quegli anni si devono tra l’altro le immagini più iconiche, che lo raffigurano sempre col colbacco in testa. Una scelta inizialmente casuale. La prima volta che lo indossò il Torino vinse uscendo fuori da un periodo negativo in stagione, e Gustavo Giagnoni, per scaramanzia e complice il freddo sotto le Alpi, quel colbacco non se lo tolse più. Quando morì a 86 anni, nel 2018, il club granata lo ha omaggiato così: «Erano gli anni del tremendismo granata e lui, l'allenatore con il colbacco, seppe esaltare quell'orgoglioso senso di appartenenza sfiorando con il Toro lo scudetto nella stagione 1971-72 e ponendo le basi per la vittoria del campionato nel 1976». Fino ai primissimi dei Novanta ebbe modo di guidare il Milan a San Siro prima di Trapattoni, la Roma, ma attraverso da nord a sud lo stivale anche nelle piazze di Udinese, Palermo e Cremonese. E il ritorno nell’isola, al Cagliari, anche se calcisticamente non troppo sorridente. Attorno a Gustavo Giagnoni si è creato un mito. Per gli appassionati di tutte le età, non è un nome che lascia indifferenti.
La sua Olbia. Non è nemmeno retorica il suo amore per Olbia. Che è un amore per l’isola, certo, ma prima di tutto orgoglio di essere olbiese. «Ricordo i grandi pranzi della domenica a casa sua, a Porto Rotondo o a Olbia. A tavola noi, Zoff, Trapattoni e tanti campioni che ero abituata a vedere in tv», è uno degli aneddoti più gustosi che fornisce Ilenia Giagnoni, nipote di «zio» Gustavo. La passione per il calcio l’ha portata a diventare giornalista sportiva, con un cognome che oltremare crea sempre tanta curiosità. Il Giagnoni senza colbacco, quello che si godeva il mare e le belle giornate olbiesi, amava il senso di comunità, le tavolate allargate, e lavoro e vita privata si univano. Da Mantova raccontano invece che ogni giornalista, calciatore o dirigente che proveniva da Olbia e si trovava a gravitare attorno Palazzo Te, riceveva la sua telefonata. Si metteva a disposizione. Li andava a prendere in aeroporto, li portava a Mantova, li invitava a pranzo a casa sua. Menu fisso: cappelletti in brodo. Uno degli episodi mediatici più celebri fa riavvolgere il nastro al 1973. Stadio comunale, in campo va in scena il derby tra il suo Torino e la Juventus. I granata perderanno e a fine gara Franco Causio, centrocampista della Juve, si avvicina alla panchina di Giagnoni per schernirlo. L’allenatore reagisce d’istinto con un pugno. Per i tifosi del Torino, diventa un eroe. «Il giorno dopo lui tornò nella casa di Olbia – racconta ancora Ilenia – e nonno, cioè il padre, lo ammonì. Lui rispose: “Mi ha detto figlio di una buona donna”, e la madre intervenne in sardo: “Allora hai fatto bene!”». L’allenatore sergente di ferro, duro ma molto passionale, emotivo, umano, dopo una lunga carriera ai massimi livelli, arrivò a emozionarsi «come mai l’avevo visto prima» una decina di anni fa. Era il 2012 e in via Porto Romano era stata organizzata la presentazione del volume biografico “Calci, carezze, sgambetti” – titolo eccellente nella sintesi – scritto dai giornalisti Alberto Gazzoli e Alberto Sogliani. Stare seduto davanti a un pubblico tutto olbiese, per Giagnoni rappresentava una sfida sentimentale impegnativa. Alla fine, uscito tra gli applausi, si avvicinò ai suoi cari chiedendo subito, con gli occhi lucidi: «Come sono andato? Bene?».