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Sara Chessa: «Aiuto i migranti a sopravvivere ma sono io la più fortunata»

di Massimo Sechi
Sara Chessa: «Aiuto i migranti a sopravvivere ma sono io la più fortunata»

L’infermiera sassarese sulla nave Life Support di Emergency. «Il terrore negli occhi dei bimbi, la forza delle donne: emozioni indimenticabili»

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Sassari «Nell’ultimo soccorso c’era un bambino di sei anni che ha viaggiato con il padre e che non vede la madre da tre anni. Penso ai suoi occhi terrorizzati quando l’ho preso in braccio. Quegli occhi non li dimenticherò mai». Sara Chessa è un’infermiera, ha 39 anni e vive con la sua famiglia a Sassari dove coordina i due ambulatori di Emergency rivolti ai migranti e alle persone indigenti. L’anno scorso per la prima volta è partita con la nave Life Support di Emergency. Quest’anno il secondo viaggio, durato 2 mesi e mezzo e concluso lo scorso 10 maggio. L’obiettivo è salvare vite umane nella rotta migratoria più pericolosa al mondo, quella del mar Mediterraneo. Dal 2022 sono 1631 le persone salvate in 19 missioni. I numeri, anche se in questo caso al positivo, sono comunque troppo freddi e raccontano solo in parte quello che gli occhi vedono e le orecchie sentono durante un salvataggio in mare.

Come è entrata a far parte di Emergency?

«In occasione della mia tesi di laurea in infermieristica. Volevo raccontare qualcosa di diverso e ho decisa di farla con loro sul ruolo della mediazione culturale in ambito sanitario. Dopo la laurea, ho collaborato con Emergency quando è stato aperto lo sportello di orientamento sociosanitario e nel 2015 abbiamo proposto e aperto anche l’ambulatorio per migranti nell’ambito del Programma Italia. Quando poi è iniziata l’attività della Life Support ho dato la mia disponibilità».

Che cosa l’ha colpita maggiormente nelle missioni di salvataggio?

«La forza di queste persone, noi alla fine non facciamo niente di eroico, semplicemente salviamo vite che purtroppo non hanno altra scelta. Loro hanno una capacità di reazione e di sopravvivenza incredibile. Ma è indimenticabile la forza che hanno in particolare i bambini».

E spesso si tratta anche di minori non accompagnati, quindi senza i genitori.

«Hanno forme di autodifesa inimmaginabili. Per tutto il tempo che navigano con noi interagiscono normalmente, giocano, rispettano le regole. Si divertono con i giochi più semplici al mondo, costruzioni, colorare. Quel bambino di 6 anni di cui parlavo prima si preoccupava di offrirti il suo pennarello prima di iniziare a colorare e anche parlando lingue diverse ci si capiva facilmente con gesti e sguardi». Tra tutte le storie quale le è rimasta più impressa nella mente?

«Penso a quella di una ragazza di 18 anni, l’unica donna della barca in difficoltà che ha avuto il coraggio di lanciare l’allarme e di salvarli tutti per poi salire a bordo da noi e dirci che se arriva in Italia niente la fermerà e diventerà infermiera. Ma di storie se ne potrebbero raccontare all’infinito e tutte hanno in comune un viaggio indescrivibile, torture subite in Libia e in Tunisia».

Come avvengono le operazioni di salvataggio? «Appena abbiamo la segnalazione di un’imbarcazione in difficoltà ci rechiamo sul posto del soccorso. Una volta arrivati vengono messi in acqua i gommoni attrezzati. Ci avviciniamo alla imbarcazione e il mediatore spiega chi siamo e cosa stiamo facendo e cosa succederà. Appena imbarcati sulla Life vengono portati in un ponte coperto dove si verificano le loro condizioni di salute, vengono consegnate coperte, acqua, vestiti asciutti e si cerca di capire se ci siano delle situazioni di emergenza. Per alcuni spesso il problema più grave sono le gravi ustioni agli arti inferiori, causate dalla miscela che si crea tra l’acqua salata e il carburante».

Uno dei problemi più grandi è la distanza dal porto che vi viene assegnato dopo un salvataggio.

«Esatto, gli ultimi decreti nazionali non agevolano i salvataggi in mare. Alle volte servono anche 5 o 6 giorni per raggiungere il porto di destinazione e oltre al fatto che ci possono essere situazioni sanitarie da affrontare in tempi brevi c’è anche il fatto che in quel lasso di tempo non possiamo effettuare altri salvataggi».

Che cosa le da più fastidio di quello che sente quando ritorna in Italia riguardo il tema dei migranti? «L’ignoranza, che poi oggi l’ignoranza è una scelta perché se uno vuole ha tutti i mezzi per informarsi. Quando sento parlare qualcuno su questo argomento e pensa di avere la scienza infusa è davvero difficile da sopportare».

Eppure, nel suo lavoro di infermiera è abituata alla sofferenza.

«Sì, ma non mi abituerò mai al fatto che queste sono morti e sofferenze evitabili, sono sotto gli occhi di tutti. È inaccettabile perché va contro i diritti umani. Le persone che salviamo hanno sicuramente alle spalle una sofferenza, una guerra, una diatriba interna nel villaggio dove vivono che rende la vita impossibile. Scelte di religione o sessuali che vengono perseguite, nuclei familiari che patiscono la fame da anni e non hanno altra scelta se non quella di far partire uno della famiglia per sperare che poi possa riuscire a dare da mangiare agli altri».

Prima le ho chiesto qual è la cosa che la infastidisce. Se invece dovessi chiederle qual è la soddisfazione maggiore?

«Mi sento fortunata di far parte di Emergency e di poter contribuire a salvare vite umane. È la cosa che conta di più».

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